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Coppa in terracotta Nariño |
Purtroppo non ho avuto il tempo, e nemmeno, forse, la capacità di andare a parlare con le persone, con gli anziani – quelli che una volta erano i saggi ma che oggi sono solo i “vecchi”- con chi dovrebbe trasmettere la memoria e le tradizioni di popoli che, anno dopo anno, continuano a perdere la loro identità.
I caratteri dominanti delle identità dei popoli che si fondono si trasmettono e si mischiano nel magma generale che accoglie tutti, ma che perdono vigore e si confondono con qualcosa di simile, ma mediato e, sicuramente, meno colorito.
Quello che invece si perde definitivamente nella
generalizzazione e nella commistione dei popoli sono le sfumature, le bellezze
di lingue che potevano esprimere concetti e sentimenti con parole e suoni che
non si possono tradurre, che non si possono replicare.
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Terracotta Nariño con disegni in nero |
Ma fa tutto parte dei costi che ogni giorno vengono pagati
al “progresso” a quel modo di vivere che ci permette maggiori agi, più
benessere materiale, che va pagato alla modica cifra di un sacrificio: il
sacrifico delle piccole cose immateriali, quindi senza valore.
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Tumaco: Busto di dignitario |
Ben più interessante è l’essenza dell’uomo, i suoi sentimenti e gli eterni turbamenti che non conoscono limiti di tempo o di cultura. Interessante è il colore e l’ambiente in cui ha vissuto e vive l’uomo, che troviamo solo nei piccoli dettagli che rivelano che le differenze tra società lontane tra di loro millenni e migliaia di miglia, sono solo formali e pure esteriorità.
Ma sono proprio queste peculiarità quelle che più ci
affascinano e a volte ci confondono. E’ in questo viaggio in un passato – per me ancora inesplorato - alla ricerca di un sogno, di un luogo, sconosciuto ma tanto
famigliare, ho scoperto il mio
Spirito del “Bosque Primario”.
Indice:
- Chakana
- La Leggenda Muisca di "El Dorado"
- La leggenda di Bachué ( Dea Muisca)
- La leggenda della Cacicca Gaitana
- L’ Inframondo
- La leggenda di Bochica
- La Notte di una Giornata molto lunga
***
1. CHAKANA
CHAKANA è una parola poco conosciuta in Occidente ma abbiamo
visto mille volte il suo simbolo che evoca immediatamente immagini e
pensieri delle culture pre-colombiane, è un simbolo tanto vivo che
spesso lo consideriamo una semplice decorazione dei tessuti andini,
riprodotta poi ovunque e usata come una carta di identità sulle
etichette delle boccette di erbe medicinali vendute nei mercatini dai
“paqos”, gli ultimi eredi degli sciamani andini.
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Constellazione della Croce del Sud |
Ma la Chakana, è molto di più. Questa figura geometrica, veniva e viene
usata, per tutto quello che rappresenta la sua forma che racchiude
in sé e sintetizza più significati, come un moderno computer, che riesce
a mettere in relazione concetti geometrici e astronomici, con teorie
matematiche e religiose, filosofiche e sociali della cultura andina.
La
CHAKANA ha un ruolo nella vita dei popoli andini ben più importante di
una semplice figura allegorica perché nei millenni è servita a creare un
rapporto profondo tra l'uomo e il mondo spirituale, per dare un ordine ai pensieri e creare una relazione tra di loro per cercare di capire come l'essere umano possa stabilire un contatto con le vibrazioni del Cosmo. Infatti proprio l'osservazione delle stelle ha generato la forma della CHAKANA che riproduce la posizione degli astri
come li vedevano i popoli andini, almeno 4000 anni fa, che li
riprodussero con un geoglifo stellare a forma di Chao, in Perù nei
pressi di Trujillo. E’ una primitiva rappresentazione della Croce del
Sud fatta di pietra ed ha la forma esatta della costellazione durante
il solstizio d'inverno.
La Croce del Sud ha
avuto una forte influenza nell'immaginario andino perché è servita per
millenni come unico punto di partenza per iniziare un viaggio armonico
attraverso tutte le scienze conosciute contribuendo a generare quel
processo che ha fatto nascere nei popoli andini una mentalità
comunitaria, completamente opposta alla mentalità individualista che si è
sviluppata nella civiltà occidentale, nata nei paesi del Nord del
mondo, vissuti sotto un cielo stellare influenzato dalla
Stella Polare che ne ha guidato lo sviluppo.
Ma i resti più antichi di una CHAKANA si trovano nei pressi della città di Caral,
a duecento chilometri a nord di Lima, e la prova del carbonio li ha
fatti datare a circa cinquemila anni fa. Ma di questo simbolo si trovano
testimonianze un po' ovunque lungo la catena andina e la Croce del Sud
appare rappresentata nelle gallerie dei centri cerimoniali di Chavin,
come Croce Scalare legata all'antico culto del pesce che è
l'interpretazione simbolica andina della Costellazione del Camaleonte.
Quella che collega la Croce del Sud con l'Asse dell’emisfero australe.
Chakana inca dettaglio tessile uncu |
Poi cominciò la conquista degli spagnoli e le culture precolombiane, vennero improvvisamente considerate sintomo del maligno, in contrapposizione con la vera fede degli europei e tutta la cultura e la scienza, che erano state tramandate in forma orale per millenni, cominciarono ad essere dimenticate, tanto che, inspiegabilmente nemmeno la CHAKANA , un simbolo così importante per la scienza precolombiana ha un ruolo di rilievo nei testi scolastici dei paesi andini.
La proporzione sacra
La costellazione della Croce del Sud è composta da quattro stelle: Alpha, Beta, Gamma e Delta che sono disposte nel cielo quasi in corrispondenza dei quattro punti cardinali. Osservando la posizione delle quattro stelle che compongono la croce si può notare che esiste una singolare proporzionalità tra la lunghezza del braccio inferiore formato da Beta e Delta con la larghezza del braccio superiore, formato da Alfa e Gamma<7i>: nel punto in cui si incontrano si determina la stessa proporzione che esiste tra il lato di un qualsiasi quadrato con la sua corrispondente diagonale.
L'uomo andino aveva trovato il TUPU “ La proporzione sacra": prendendo la lunghezza del braccio minore dell’asse orizzontale, come lato di un quadrato, la diagonale di questo quadrato corrisponde alla lunghezza del braccio maggiore dell'asse verticale.
La diagonale del quadrato fu chiamata CHEQALUWA (l’esatta) e corrisponde alla radice quadrata di due.
Era una fonte di dati geometrici perfetta che servì a sviluppare il concetto di una idea che mettesse in relazione tutte le scienze tra di loro e che aveva un nome, che oggi si è perso.
Avendo come unico strumento di ricerca solo la propria paziente e metodica osservazione, lo studio dovette durare millenni e richiese enormi sforzi di immaginazione e di inventiva per cogliere le immagini delle stelle e riprodurle sulla pietra con le stesse esatte relazioni tra i bracci della croce del sud: se il lato d'un quadrato corrispondeva al lato minore, il maggiore doveva essere la sua esatta diagonale. Ècco la proporzione sacra della croce quadrata delle Ande: LA CHAKANA.
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Simbología della Chakana |
Forma e significato
Letteralmente, Chakana è un vocabolo di origine quechua ed è formato dall’unione del verbo chakay , che significa attraversare, e il suffisso na che significa “che si deve”. Chakana quindi deve essere intesa come il “ponte”, il simbolo che l'uomo deve conoscere per unirsi con l'Hanan Pacha, ovvero con il mondo dei cieli dove vivono le divinità.
La Chakana è formata da quattro lati composti da tre gradini ciascuno collocati in maniera simmetrica. Al centro della croce, così formata è inscritto un cerchio diviso in due parti uguali.
In una delle sue molteplici interpretazioni la sua forma con dodici angoli esterni rappresenta i mesi dell'anno ed i quattro bracci di cui si compone la croce indicano i punti cardinali.
Nella parte superiore si rappresenta il “mondo ideale, il mondo dei cieli”.
------- I tre gradini superiori della scala a sinistra, sono chiamati Puryi e riportano la "teoria dei tre mondi:
1. Hanaq Pacha : "il mondo prima della vita" è il primo gradino e in questo mondo magico vivono le divinità tutelari che hanno forme umane e vivono qui anche gli uomini (anima e corpo), dopo la morte in attesa di rigenerarsi in nuove vite.
2. Kay Pacha : "il mondo della vita" che trascorre dalla nascita alla morte in una esistenza ordinata e predeterminata. Le popolazioni andine erano convinte che ogni persona doveva svolgere un suo ruolo all'interno dell'ordine sociale e dell'armonia comunitaria.
3. Ukhu Pacha : "il mondo dopo la vita" dove tornava l'uomo dopo la sua morte reintegrandosi nella natura, infatti le sepolture erano fatte a diretto contatto con gli elementi naturali, sotto un albero, in una grotta, sotto le pietre.
------- I tre gradini superiori della scala a destra mostrano la "teoria cosmogonica", la gerarchia dell’Universo
1. Wiracocha, il creatore supremo del cielo e della terra sedeva nel gradino più alto
2. Il SOLE , un Dio vivo e vicino all’uomo era sul secondo scalino
3. le divinità tutelari dell'uomo, della casa, della comunità, gli antenati si trovavano sul terzo scalone.
Nella parte inferiore si rappresenta il "mondo reale":
------- I tre gradini inferiori della scala a sinistra indicano le norme e principi fondamentali delle relazioni umane, della condotta dell’uomo.
1. Ama Llulla : il principio morale dell'onestà e della lealtà.
2. Ama Sua : il principio base dell'intera comunità basato sulla condivisione
3. Ama qella : il principio della laboriosità per il benessere della comunità e dell'impero. Ricollega i due principi precedenti, per cui l'indio all'obbligo di lavorare onestamente per condividerlo co n tutta la comunità, l’ayullu.
------- I tre gradini inferiori della scala a destra,lo Yuyaypac, ricordano la gerarchia inalterabile delle relazioni politiche, sociali e religiose.
1. Terre del Sole : i prodotti coltivati servivano a sostentare seimila sacerdotesse solari e tutto l’apparato religioso
2. Terre dell’Inca : erano i suoli migliori e più produttivi e con le sue ingenti risorse l’impero retribuiva i suoi lavoratori, comprava armi, immagazzinava riserve alimentari e le usava come strumento di scambio con altri popoli e come regalia per i popoli vassalli
3. Terre del Popolo : distribuite per le coltivazioni a livello famigliare, coltivate dopo aver prestato il servizio pubblico o per pagare i diritti dell'inca.
Ma, come abbiamo già detto, la Chakana mostra solo i presupposti su cui poggia la civiltà incaica e, solo passando attraverso questo concetto religioso di civiltà, quindi nel rispetto di questo modo di vivere, si possono trarre le interpretazioni, le leggi, gli auspici per governare il presente e prevedere il futuro.
La costellazione della Croce del Sud è intesa come una sintesi della cosmovisione andina che segue le stagioni dell'anno, ma è utilizzata anche per sostenere o combattere il potere, le dinastie e i governi dei popoli e nelle allegorie simboliche che si possono trovare nella croce quadrata si cercano riferimenti alla storia, alla filosofia e alle scienze della cultura andina.
Il primo documento storico che menziona La Chakana è una cronaca della 1613 di Juan de Santa Cruz Pachacuti Yamqui Salcamaygua, che oltre a raccogliere informazioni sull'antico Perù riportò anche un disegno sulla cosmovisione andina.
Simbologia
La CHAKANA si trova esattamente nel punto di incontro della linea verticale e di quella orizzontale creando due “spazi sacri” in contrapposizione:
- 1 - nella proiezione verticale si dividono a metà uomini e donne
- 2 - nella proiezione orizzontale si dividono a metà esseri celesti e esseri terreni e sotterranei (per sintetizzare blasfemamente: angeli e demoni).
- 3 - L'orientamento dal basso verso l'alto avrebbe connotazioni femminili e quello dall'alto verso il basso connotazioni maschili.
- 4 - Le diagonali della Chakana collegano i quattro angoli della casa, cioè dell’"universo" e in questo universo tutto è messo in relazione :
*** così la linea verticale esprimela corrispondenza e la contrapposizione tra una cosa piccola che sarà uguale e contraria a una cosa grande
*** nella parte alta c’è che il mondo dei cieli (Hanaq Pacha), nella parte bassa c’è il mondo dei vivi (Kay Pacha)
*** i due mondi si incontrano nelle sorgenti, nei laghi, sulle montagne ( come nelle altre religioni)
*** tutto ha una corrispondenza e complementarietà: il tetto e il pavimento - il giorno e la notte - l'uomo e la donna - nell'interpretazione di questo simbolo si cerca il percorso per dare alla vita un significato non solo utilitaristico: “la Chakana serve a comprendere come costruire la casa ma essenzialmente vuole far comprendere che la casa non sarà occupata solo da chi l’ha costruita materialmente.”
Qualsiasi cosa e qualsiasi essere ha un motivo per esistere, non c'è niente di inutile.
Il Qhapaq Nan (Il cammino dei Giusti)
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Qhapaq Ñan - il Camino Inca unisce sei paesi |
Per immaginare l'importanza che gli antichi popoli andini hanno sempre dato alla Chakana si deve considerare che i loro idoli, gli spiriti delle persone e delle cose, i tempi e le strade sarebbero state costruite solo in base a quello che poteva essere interpretato dai simboli della Chakana.
Il cammino dei giusti è una linea retta lungo la quale sono state costruite le città Inca, ubicate geograficamente su una diagonale a 45° dell'angolo nord sud. Se non si è trattato di un fatto casuale, questo fatto può solo dare un'idea della sapienza di questi antichi popoli.
Prendiamo un quadrato e la sua diagonale (la "Qhapaq Ñan") a 45°, e tracciamo un cerchio che la circoscrive e poi in inscriviamo dentro allo stesso quadrato un altro cerchio e un altro quadrato i cui vertici dovranno essere al centro dei lati del quadrato maggiore.Otteniamo così i punti A e D, poi tracciamo l'altra diagonale del quadrato maggiore e otterremo i punti B e C. Facendo passare delle linee incrociate su questi punti faremo sorgere una croce quadrata inscritta nel cerchio più grande, che ha lo stesso perimetro.
Questo ragionamento è una delle formule base della Chakana. Con questa croce andina è possibile continuare il ragionamento costruendo altre due diagonali che avranno un angolo di 22,30° rispetto alla retta orizzontale, come possiamo vedere nel disegno.
Ora proviamo a trasferire questo studio geometrico sul globo terrestre: troveremo la Qhapaq Nan a 45 gradi dell'angolo nord-sud e la linea chiamata il " cammino della di verità" o Chekaluwa, coinciderà con l'asse di rotazione della terra che infatti a un angolo di 23° 30’.
Coincidenza che ci porta a riconoscere che la "linea della verità e della vita" degli antichi popoli andini era in origine la rappresentazione dell'angolo dell'asse di rotazione della terra che, appunto, ha un'inclinazione di 23° 30 '.
Ma questo studio geometrico non è fine a se stesso perché influenza molte altre scienze perché questo angolo "ottimale" e la base dell'evoluzione della vita sulla terra. L'angolo di deviazione dell'asse terrestre con la sua inclinazione di 23° e 30’ ha generato le stagioni, i solstizi e la diversità dei climi e di conseguenza la nascita della vita e della biodiversità.
Il kamaq
Secondo gli antichi popoli andini quindi, l'osservazione della Croce del Sud e l'elaborazione di questo complesso ma semplice ragionamento geometrico, giustifica la sua centralità rispetto a un pensiero unitario, a cui qualsiasi scienza deve far riferimento.
Gli antichi andini lo chiamavano Kamaq, in lingua quetqua, ed era considerato come il punto centrale di ogni ragionamento, il punto che deve generare un ordine spaziale, sociale o religioso passando sempre per il centro della Croce del Sud o del quadrato centrale della Chakana che in questo modo sarà una specie di filtro che serve a dare coerenza e disciplina a qualsiasi figura e a qualsiasi situazione.
Facendo apprezzare la bellezza dei contrasti che possono guardare l’”Hanan” cioè la parte alta, quando tutto è sereno, oppure il passaggio dall’alto al basso, quando dallo star bene si passa a star male, oppure si guarda all’ “Hurin” cioè la parte bassa, quando le cose vanno male, oppure il passaggio dal basso verso l’alto, quando dallo star male si torna a star bene a essere sereni.Questo pensiero veniva traslato nell'ordine sociale e solo tenendo sempre presente il profondo significato della Chakana che l'imperatore, il cacicco, i sacerdoti che parlavano nel nome di Wirakocha, potevano gestire la società nel pieno rispetto delle regole della natura, favorendo lo sviluppo della cultura sempre secondo i principi della morale.
E sempre questo pensiero permetteva all'uomo di essere un tutt’uno con la natura e il kamaq era identificabile come la vera essenza che mette ordine nella società. Questo elemento non può scomparire perché si arriverebbe alla disintegrazione della cultura stessa (come avvenne quando con l’arrivo degli spagnoli le culture pre-colombiane persero i loro riferimenti e si fecero fagocitare da un’altra cultura).
Quando una società comincia a sgretolarsi è perché uno o più dei principi su cui ha sempre poggiato non sono più in equilibrio con gli altri principi essenziali,allora il kamaq deve generare un nuovo ordine. ( Esempio il mito di INKARRI).
Quando una società è sconfitta e sovrastata da un'altra questo significa che anche la sua cultura (gli antichi popoli andini dicevano i loro Dei) ha fatto il suo tempo e dovrà lasciare il posto a un nuovo equilibrio, anche se sarà basato su una nuova cultura o una nuova religione.
Secondo il kamaq andino, come abbiamo già accennato, la società era divisa in due metà che insieme costituivano il pensiero orizzontale:
- 1 _- Hanan – In alto : il pensiero positivo di chi è al massimo della sua condizione (quando tutto va bene)
- 2 - Hurin - In basso : il pensiero negativo di chi versa in cattiva sorte
Qualsiasi situazione è sempre influenzata da questi due elementi che rappresentano il ciclo della vita di qualsiasi uomo, popolo, attività personale, artistica o sociale, dove chiunque passa attraverso un continuo alternarsi di sensazioni, sentimenti e stati diversi.
Proprio questo principio di alti e bassi ha fatto sì che nella Chakana questo concetto collocasse visivamente nella parte alta (Hanan) gli eventi, i periodi e i sentimenti di un momento bello della vita e nella parte bassa (Hurin) i periodi e sentimenti dei momenti tristi e negativi.
Ma essendo questo pensiero la rappresentazione della vita intesa nella sua essenza più ampia sia umana che sociale, o naturale, la partizione binaria delle due metà deve costituire la base di un pensiero unitario e contenere in sé la "dualità delle cose e dell'uomo".
Anche se si attraversa un periodo negativo ci sarà sempre un momento che potremmo definire meno negativo o probabilmente anche buono. D'altro lato anche quando tutto va bene è possibile che ci sia qualcosa che va storto.
Questo per dire che qualsiasi forma di vita umana, sociale o naturale è composta da un sistema binario e questo lo possiamo verificare molto facilmente ascoltando l'armonia di una musica, o guardando quello che chiamiamo bello, toccando un tessuto o apprezzando l'eleganza di una forma, o la perfezione di una costruzione architettonica.
Nella Chakana troviamo tutti gli elementi che si trovano in un pensiero che può essere anche non organico, quindi disarmonico, senza continuità, che si interrompe bruscamente, ma può comunque mantenere una forma gradevole, come gradevoli sono le decorazioni a zig zag che non rappresentano la realtà della natura, quella che vede l’occhio umano, ma che si possono immaginare e che disegnano un contesto in cui si esprimono idee, significati anche contrastanti tra di loro ma complementari.
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2. La Leggenda Muisca di "El Dorado"
pubblicata su Tepee 38/2010
Già
dai tempi della conquista i primi avventurieri pensavano che quelle
terre sconosciute, abitate da popoli tanto esotici nascondessero città
costruite d’oro, con case tappezzate d’ argento e pietre preziose. Per
di più i cacicchi erano ospitali e generosi e ricevevano gli stranieri
con generosi doni che erano interpretati (da gentaglia vogliosa di
arricchirsi in fretta perché scappata da guerre, fame e carestie) come
un segno di ricchezze senza limite di un luogo dove oro e pietre
preziose dovevano essere abbondanti come sabbia nel mare. Per
secoli la leggenda dell’ “El dorado” ha alimentato speranze e illusioni
in tanti uomini ambiziosi e disperati che cercarono di trovare nelle
Americhe, spesso con violenza e angherie, una vita migliore.
L’antica tradizione Muisca dello Zipa, ricoperto con polvere d’oro che offriva tesori alla dea del sacro lago di Guatavita fu l’origine della leggenda di El Dorado. Questo modello in oro è esposto nel Museo de Oro di Bogotá, Colombia.
La leggenda del Cacicco di Guatavita non è una invenzione della prodigiosa immaginazione degli indigeni ma un vero pezzo di storia le cui origini risalgono al lontano passato delle popolazioni Muisca che crearono una cerimonia celebrata da un Cacicco d’oro. Il racconto di questa festa figura bene tra le storie più belle della cultura universale.
Il Cacicco di Guatavita comandava le terre che si trovano poco a Nord della città che oggi si chiama Bogotà e ogni primavera celebrava un rito per implorare la benevolenza degli Dei della Laguna, per riaffermare la sua discendenza divina ed il suo diritto a governare ed amministrare la giustizia.
Nei periodi che precedevano la cerimonia il Cacicco e tutti i cortigiani dovevano rispettare un rituale che prevedeva sacrifici, digiuno, astinenza sessuale e penitenza per purificare il corpo e l’anima prima presentarsi agli Dei per chiedere il perdono dei peccati , per essere consolati e per ricevere buoni auspici per il futuro.
Il giorno
della festa si dovevano rispettare regole rigorose, nulla poteva essere
lasciato all’improvvisazione e, con meticolosità, si curava ogni minimo
dettaglio provando tutti i gesti previsti dalla solenne cerimonia. Nella
corte si avvertiva la frenesia delle attività ce precedevano i grandi
festeggiamenti del sacro rito nelle acque della Laguna.
Anche il popolo viveva una frenesia altrettanto grande e si preparava con penitenze e propositi di pentimento, purificando il corpo con giorni di digiuno e privazione di tutto ciò che poteva dare piacere o divertimento. Solo con il corpo e lo spirito purificato si sarebbe stati ammessi ai festeggiamenti che seguivano il rito nella Laguna.
C’era chi preparava festoni dipinti e pennacchi, fatti con piume di uccelli multicolori, per decorare le maschere da indossare durante la festa, c’era chi accordava gli strumenti a fiato, i tamburelli e i sonagli di conchiglia o di osso per allietare la festa. C’era poi chi coceva il cibo o portava la frutta, ma la maggior attenzione era dedicata alla preparazione della “chicha”, il liquore fermentato fatto con spirito di mais, bevuto da sempre da tutti i popoli delle Ande, dopo aver masticato foglie fresche di coca, miste alla polvere bianca di calce che ogni contadino custodiva gelosamente nel suo “poporo”.
Con l’avvicinarsi del giorno dell’evento l’ansia della gente aumentava ed i preparativi diventavano sempre più febbrili per il timore che non fosse tutto pronto per l’arrivo dei rappresentanti dei popoli vicini che venivano per partecipare alla cerimonia della laguna.
In tutta la regione si sentiva una forte voglia di
divertirsi che rendeva festosa l’atmosfera di ogni giorno che precedeva
la festa. Tutti volevano dimenticavate le tristezze e le miserie
quotidiane e, identificandosi con lo spirito della festa, cercavano di
sentirsi felici e almeno una volta uguali a tutti gli altri, senza
curarsi delle differenze sociali.
La cerimonia del rito della Laguna cominciava di notte, poco prima dell’alba. Quando già da ore tutto era già pronto, aveva inizio il corteo che si snodava dal Palazzo del Cacicco alla Laguna divina. La processione era preceduta dal suono di flauti, pifferi e tamburelli e da una folla di persone che indossavano abiti colorati e scintillanti, poi seguivano i musici che sfilavano accompagnati da canti e preghiere.
Arrivava infine il corteo scortato dalla guardia reale formata da guerrieri, i “güechas”, che sfilavano con lunghe lance, frecce ed alti copricapo ornati con le piume degli uccelli più esotici. La guardia era disposta ai lati e dietro la portantina reale, e la portava maestosamente a spalla, accompagnandola fino alla laguna, sulle cui rive si trovavano già in attesa tutte le genti del luogo e delle zone vicine.
Per evitare che il piede del Cacicco toccasse il suolo durante il tragitto dalla portantina alla maestosa zattera ancorata alla riva della Laguna, il terreno veniva ricoperto con stoffe pregiate e i petali di fiori di bosco multicolori e profumati.
La grande zattera era costruita con dei giunchi intrecciati e con bordi alti e decorati riccamente. Quattro bracieri erano stati messi ai lati dell’imbarcazione e bruciavano resine e profumi insieme al “moque”, una specie di incenso prodotto negli altipiani con piante e resine del posto.
Per primi salivano a bordo i sudditi di rango più elevato ed erano riconoscibili per il ricco abbigliamento, le piume di uccelli rari, le collane ed i copricapo decorati da lamine d’oro. Questi prendevano posto ai lati dell’imbarcazione, lasciando il posto al centro libero per il sovrano, che dopo essere salito con passo solenne sulla rampa della zattera, raggiungeva il trono che si trovava in mezzo a ceste piene di gioielli e pietre preziose.
Allora anche dalle rive si accendevano bracieri profumati e tutto il popolo doveva volgere le spalle alla laguna o abbassare gli occhi per non offendere con il suo sguardo la divina maestà del cacicco. La solennità del momento era annunciata con canti, invocazioni e preghiere che risuonavano per tutta la laguna.
Il Cacicco lasciava cadere il prezioso manto rosso che copriva il suo corpo e restava del tutto nudo, ma cosparso con uno strato di resina resa scintillante da una patina compatta di polvere d’oro.
Così statuario, eretto e superbo, il Cacicco nel buio della notte, rifletteva la luce della luna e aveva l'aspetto solenne e austero di un Dio pagano.
Poi la Balsa reale, spinta da lunghi remi, raggiungeva lentamente il centro della Laguna, dove aveva inizio la parte più maestosa del rito. Tutto il popolo restava in silenzio ed il nobile Cacicco avvolto nelle volute del fumo di resine profumate, volgeva il suo sguardo verso Oriente ed attendendo il sorgere del sole, entrava in uno stato di estasi mistica.
Quando le prime sfumature del rosso e del viola si insinuavano tra le nuvole dell’intenso azzurro del cielo della notte e finalmente il primo raggio di sole si rifletteva sul corpo dorato del cacicco, un delicato mormorio di preghiera accompagnava il fluttuare delle onde della Laguna sacra insieme alle delicate ed gioiose note di flauti e tamburelli che risvegliavano il Cacicco dal “trance” in cui era rimasto immerso.
Allora il Cacicco intonava un inno agli Dei, con voce percettibile solo ai dignitari a bordo, per invocare la buona sorte per i suoi amati sudditi, poi alzava le braccia verso tutto il popolo che cingeva la Laguna e lanciava un grido di incontenibile felicità.
La sua voce rimbombava in tutti gli angoli della valle e scatenava le grida della folla, già eccitata per l’imminente inizio del rito sacro.
Il Cacicco, sempre immobile al centro della balsa, continuava a recitare le più profonde ed emozionate orazioni previste dalla tradizione e prendeva a piene mani i più splendidi smeraldi e li lanciava nelle profonde acque della Laguna sacra. Poi ancora sussurrando formule antiche, con gesti alteri, continuava la cerimonia spargendo nelle acque della laguna gli oggetti d’oro più preziosi ed i gioielli più rari creati dagli abili artisti orafi muisca.
Le preghiere intense del cacicco e dei cortigiani accompagnavano il lancio delle preziose offerte nelle acque, e gradualmente le voci della folla alzavano il tono ed i canti e le preghiere si levavano alte nell’aria profumata della valle. Dopo la cerimonia delle offerte alla Dea della Laguna il Cacicco si preparava per l’immersione e si gettava dalla zattera nuotando nelle acque scure della laguna. Le alghe a contatto con il corpo scioglievano la resina e la polvere d’oro scendeva verso il fondo del lago come ultimo omaggio alla Dea. Poi il Cacicco risaliva sulla balsa e subito i cortigiani lo avvolgevano in morbide coperte e asciugavano il corpo ormai purificato dalla sacra abluzione.
Mentre la zattera si preparava, maestosamente, a far ritorno sulla terra ferma il Cacicco era rivestito con paramenti e mantello propri della sua regalità.
Al suono dei “fotutos”, degli zufoli, dei flauti e dei tamburelli l’imbarcazione tornava a riva ed i sudditi voltavano nuovamente le spalle alla sacra laguna o si inchinavano reverenti perché ora, come sempre i loro sguardi avrebbero potuto ferire od offendere la sublime maestà del sovrano che, sceso a terra, calcava nuovamente lento e solenne i tappeti di fiori che lo portavano verso la portantina reale che i gagliardi guerrieri immediatamente sollevavano per ricondurre l’augusta figura alla sua reggia.
Terminava così il rito sacro ed il seguito del re si cambiava per partecipare alla festa che iniziava con le celebrazioni del palazzo reale, dove erano allestite tavole imbandite con un assortimento esagerato di cibi inviati per l’occasione da tutti i territori del caciccato. Per il cacicco e la sua corte, al suono di ocarine, flauti e tamburi si esibivano le più belle danzatrici scelte per provocare, con movenze sensuali, gli sguardi e le voglie dei cortigiani durante il banchetto, che era sempre abbondantemente accompagnato da generose bevute di “chicha”. In breve tutti i commensali si abbandonavano agli eccessi più esagerati e la festa arrivava al suo culmine quando tutti si abbandonavano in orge collettive e violente, storditi dal fumo nell’ubriachezza più brutale.
Anche il popolo iniziava i festeggiamenti anche se senza l’opulenza e gli eccessi del Palazzo: nei giorni che seguivano la purificazione e la preghiera nella laguna tutto era allegria, gioia e tutti si sentivano legittimati a godersi la festa. Tutti si riversavano nelle piazze e nelle strade dove tutti insieme, poveri e ricchi, sfilavano con il volto coperto da maschere di ogni tipo, gridando e cantando al suono, spesso stonato, di flauti, ocarine e tamburelli suonati da musicisti già ubriachi. Anche tra il popolo, come alla corte, l’alle- gria dei festeggiamenti raggiungeva il suo apice negli eccessi di cibo, consumato insieme spesso in strada e nelle straordinarie bevute di “chicha” che facevano scoppiare colossali e bestiali ubriacature di massa che causavano violenze fisiche e sessuali fino a quando tutti cadevano incoscienti ed addormentati ma liberi.
Domani ognuno sarebbe tornato al suo lavoro per riprendere la solita vita di stenti e soprusi, come ogni altro giorno dell’anno.
Il nome “El Dorado” si diffuse al tempo della conquista, quando gli spagnoli cercavano come potersi appropriare dei tesori degli indigeni più che conquistare il potere sul loro territorio, benché assoggettare gli indigeni fosse l’unico modo per raggiungere i loro tesori. La storia ebbe inizio con Sebastiàn de Belalcàzar, che fondò Quito, i n Perù, nel 1534. Belalcàzar aveva preso come schiavi alcuni indigeni per procurarsi notizie sui luoghi in cui si trovavano le città più ricche d’oro, d’argento e pietre preziose.
Così quando un indio raccontò la storia di un Cacicco, ricoperto d’oro che gettava offerte preziose per gli Dei di in una Laguna tra le montagne, Belalcàzar vide la possibilità della sua vita, come aveva avuto Pizarro in Perù per conquistare potere, gloria e ricchezza.
E proprio per evitare che il suo diretto superiore Pizarro , avuta questa notizia, volesse intraprendere lui stesso di questa avventura, Belalcàzar ordinò che la storia restasse segreta. Per evitarne la diffusione inventò un codice segreto : ogni volta che i suoi soldati dovevano indicare il luogo, il popolo o il percorso da seguire in questa avventura, parlavano di un mitico e sconosciuto “El Dorado”.
Così nacque il nome immaginario della leggenda, anche se quando Belalcàzar arrivò sugli altopiani, questi erano ormai già stati conquistati da Jimenez de Quezada. Era stata fondata Bogotà, sterminati gli indigeni ed ucciso lo Zipa di Guatavita, l’ultimo cacicco che aveva celebrato il rito del “El Dorado”. Ma anche se qui nessuno trovò mai grandi ricchezze, questa leggenda già si diffondeva non solo tra i conquistatori in America ma anche in Europa.
Quindi solo una casualità diede il nome “ El Dorado” alla mèta di pionieri, avventurieri ed eserciti di conquista e rappresentò impropriamente, oltre a ricchezza, tesori favolosi e fortuna facile, anche lo spirito che animò i pionieri alla scoperta di nuove terre. causando massacri di interi popoli, alla scomparsa di antiche culture.
Le tradizioni degli indigeni pagani furono considerate residui di culture inferiori e quindi il massacro di interi popoli permise l’introduzione della civiltà dei vincitori. I riti, le lingue e gli dei dovevano essere dimenticati, ogni forma artistica distrutta perché differente e, quindi, incomprensibile e gli oggetti d’oro furono fusi per essere portati più facilmente al re di Spagna.
La memoria delle grandi culture precolombiane oggi può essere studiata solo grazie a qualche reliquia rubata o recuperata dai guaqueros dalle tombe dei loro antenati e dal ricordo orale dei superstiti “Muisca”, talvolta direttamente in spagnolo riducendo così la possibilità di esprimere a pieno concetti di una cultura remota e lontana dalla realtà di oggi.
La storia del Cacicco di Guatavita raccoglie le prime regole religiose e sociali del popolo Muisca ed il significato originale di ogni atto della cerimonia esprime il profondo senso religioso, in tutta la sua formalità ed il simbolismo ostentati dallo sfarzo del rito ripetuto ogni anno dai sovrani (“Mnya”in lingua chibca) per oltre un millennio.
Infatti ogni comportamento descritto nella leggenda trasmette la profonda religiosità del popolo muisca, che conduceva una vita dura, in mezzo a montagne ed acquitrini, spesso in guerra con le tribù vicine in un territorio tormentato da terremoti ed alluvioni, quindi ovviamente incline ad affidarsi alla benevolenza degli Dei pur dovendosi assoggettare alle stesse rigide regole formali per la purificazione del corpo e dell’anima osservate dai sacerdoti (“Jeques” ) prima che intercedessero per loro con gli Dei.
Ma questa tradizione riconosce anche la sacralità e la divinità del sistema politico rappresentato dal Cacicco, che infatti non doveva mai essere visto in faccia dal popolo, pena l’ostracismo sociale per il colpevole, che additato al pubblico disprezzo, poteva perfino essere condannato a morte per lesa maestà, insieme alla sua famiglia.
La leggenda termina con festeggiamenti sfrenati offerti al popolo dal cacicco e qui troviamo la conferma e la spiegazione sociale dell’evento dei baccanali che servono, come sempre è servito, a tutti i governi autoritari ad elargire un momento di protagonismo al popolo che debilitato nel fisico e ubriaco nell’anima potrà meglio continuare ad essere un buon suddito.
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La storia della Gaitana, la Cacicca-vedova, risale al tempo in cui gli spagnoli conquistarono le terre dell’Huila, nella parte meridionale delle Ande colombiane poco a sud del luogo dove oggi si trova la diga di Betania e dove i campesiños stanno manifestando contro la costruzione della nuova diga di “El Quimbo” che dovrebbe inondare le loro terre, costringendoli all’emigrazione, ma dove il Rio Magdalena si sta opponendo all’opera dell’uomo tanto che, dopo essere stato deviato artificialmente, è tornato a scorrere nel suo letto originario.
Il mito di questa Cacicca guerriera è ispirato a un fatto di cronaca vera che racconta atti di coraggio, crudeltà, meschinità, dolore, odio, vendetta, orgoglio e amor materno. Ma il vero messaggio che ci trasmette questa storia è la dimostrazione che, per quanto siano assurde ed efferate le angherie che si possano vivere, non c’è modo per evitare che certe tragedie, certi atroci delitti vengano commessi di nuovo, perché l’uomo in ogni tempo ha imparato poco dalla memoria dei padri anche se li onora e ne conserva il ricordo.
Questa non è la storia di una madre che ha perso un figlio, ma la storia di un popolo che è stato risucchiato da un vortice di violenza, che lo ha travolto lasciandolo senza nessuna possibilità di scegliere. Stretto in una stretta strada ostile, attaccato su tutti i fronti si è trovato obbligato a dover lottare, senza il tempo di pensare, e reagire con l’odio alla violenza agli inganni, alle bugie e ai tradimenti di un nemico sleale, che combatte per vincere, senza regole, senza rispetto né dignità.
È, purtroppo, una storia estremamente attuale che potremmo leggere sui giornali di oggi: si racconta delle astuzie della politica, del tradimento e dell’oppressione dei forti contro i deboli e dei furbi contro gli onesti. Si racconta di come si conquista il potere e di come nasce una ribellione contro i soprusi, che inizialmente vengono minimizzati e sopportati. Si racconta di come il malaffare si insinua nel tessuto della società, come un virus, fino ad avvelenarla e modificarne l’equilibrio sociale, togliendo sempre un po’ di più a tutti per poter distribuire tutto il guadagno a pochi miseri, sempre più ricchi, manipolatori.
Ma a ben osservare, l'esperienza dei padri, la loro memoria, è stata tutta assorbita da quella che si può definire " l’arte per fare una guerra" che si è molto raffinata tanto che oggi fa parte del programma insegnato nelle scuole militare. Oltre alle armi di offesa fisica contro il nemico e contro la popolazione, si insegna ad usare la “disinformazione” per creare un'opinione pubblica più favorevole e predisposta verso un certo comportamento piuttosto che un altro. Certi delitti vengono provocati, sfruttati e strumentalizzati per presentarli all’opinione pubblica come atti di criminalità comune, per distrarre l’attenzione da ben più gravi infamie che, in silenzio, potranno passare inosservate. Con più eleganza e nobilitate da un parvenza di formazione professionale si insegna oggi a scuola come provocare le stesse circostanze che si verificarono ai tempi della Cacicca Gaitana.
Nelle classi di storia delle scuole colombiane si racconta di una donna che gli spagnoli chiamavano “La Gaitana” forse per assonanza con il suo vero nome che nella lingua quechua era “Wateqpa, la Valorosa. Era una delle tante Signore, le donne cacicco, che governavano nella regione intorno al Rio Guacacallo, un affluente del grande fiume Yuma, come era chiamato allora il Rio Magdalena.
Pensiamo a una bambina che giocava tra quelle montagne dove oggi è stato creato il “Parco Archeologico di S. Agustin” , in mezzo alla solennità di una antica civiltà, capace di erigere opere megalitiche, templi, graffiti e sculture che, per stile, magnificenza e dimensioni sono oggi tra le più importanti opere della scultura precolombiana. Queste pietre scolpite non erano un patrimonio che apparteneva alla sua tribù ma era una eredità ben più antica che dovevano proteggere e custodire come ricordo dei loro padri, scomparsi improvvisamente tante generazioni prima.
Questa bambina correva lungo l’Alto Rio Magdalena, dove le acque erano poco profonde e il fiume si restringeva tanto che si attraversava con un salto. Tutto intorno c’erano tante statue megalitiche che rendevano omaggio agli Dei e agli Antenati: La “Fuentes de Lavapatas” era una Valle Sacra, un luogo di pace dove si andava per pregare gli spiriti e il cuore era più leggero tra le antiche pietre scurite dal tempo e scolpite a forma di animali, di guerrieri e di simboli divini, nella quiete delle acque del fiume che rendevano più solenne il silenzio.
Quando la Gaitana era bambina si viveva ancora in pace, anche se si diceva che dove le acque del Rio Yuma si perdevano nella grande acqua, erano arrivati degli Dei molto alti, con la pelle bianca e peli sul corpo, che marciavano svelti, sporchi e maleodoranti accompagnati da bestie forti e grosse mentre si facevano precedere e seguire da piccoli animali che ringhiavano e azzannavano chiunque si avvicinasse.
Dovevano essere uomini potenti come gli Dei, perché avevano ucciso Re e cacicchi e nessuno, fino a quel momento, aveva mai osato uccidere un Re. Un Re era un essere divino, era molto più simile agli Dei che agli uomini e solo l'idea che un uomo del popolo o della corte osasse pensare di ucciderlo era inspiegabile, non solo per la venerazione dovuta al Re ma perché ci si sarebbe potuti inimicare gli Dei che avrebbero potuto abbandonare gli uomini e lasciarli senza la loro protezione e senza rivelare i loro auspici. A nulla sarebbero servite le implorazioni del popolo o le invocazioni degli sciamani: gli Dei avrebbero taciuto e l’Inframondo avrebbe tenuto chiusa la sua porta. (* Vedi NOTA 2)
In quella parte di Cordigliera molte tribù erano governate dalle donne e una delle Signore-cacicco divenne proprio la Gaitana, la valorosa. La nostra storia comincia nel 1538 quando Timanco, figlio della Cacicca, era già diventato Signore dei Timanaes mentre sua madre, che gli aveva trasmesso parte del potere, era diventata per tutti “La Vedova Gaitana”.
In quel periodo le preghiere e le offerte agli dei erano diventate sempre più frequenti e ricche, perché si sentiva dire nelle valli che potenti tribù come i Tuluas, i Xamundies, gli Yotocos e i Bugas, che vivevano più a valle, nella terra dove tramonta il sole, erano state sterminate e che la Valle de laboyos era stata distrutta e ogni sua ricchezza depredata dagli quegli stessi soldati che poi avevano costruito la nuova città di Popayan.
Erano stati gli uomini di Sebastián de Belalcázar che marciavano accompagnati da una guida india di Quito, Quisquiz, che doveva portarli nelle terre del favoloso El Dorado, che si trovava più a Nord nelle savane degli altipiani, dove viveva il popolo Muisca e dove oggi sorge Bogotà.
Per questo motivo Belalcázar aveva dovuto attraversare le terre degli Yalcones e dei Timanaes e per questo stesso motivo non si fermò anche se decise di incaricare i suoi luogotenenti Pedro de Añasco e Juan de Ampudia di presidiare questa zona e fondare un’altra nuova città, Timaná.
I Timanaes erano un popolo povero e semplice e credendo che gli stranieri volessero trafugare i loro beni preziosi la Gaitana, cercò di mettere in salvo quello che per lei, per il suo popolo e per la sua cultura era il vero tesoro. Pertanto mandò i suoi uomini nella Valle Sacra a coprire con terra e frasche tutte le statue megalitiche degli antenati, perché “tutta la Valle Sacra” era il loro unico tesoro, perché profanando quelle statue e quella pace il suo popolo non avrebbe più parlato con l’al di la: In questa valle ogni anno, durante l’equinozio estivo, si celebrava un rito sacro per invocare la benevolenza e la protezione degli Dei contro tutte le avversità della vita e della natura.
Del resto sarebbe stato molto difficile per la Gaitana riuscire a comprendere il vero spirito che spingeva gli stranieri ad uccidere e rischiare di essere uccisi pur di impossessarsi di beni di nessuna importanza come “ oro o pietre”. Per tutti i popoli pre-colombiani il concetto di proprietà e di arricchimento non coincideva affatto con quello degli europei. L’ idea del possesso per questa gente era molto più ampia.
Tutti potevano liberamente raccogliere i frutti della terra, della pesca e della caccia per sfamare se stessi e la propria famiglia e per pagare il tributo per la comunità. Tutti potevano avere quanto serviva per vivere e la ricchezza non si esprimeva accumulando cibo per il futuro o altri beni naturali, né dava prestigio l’appropriarsi di beni superflui.
Si tratta di un concetto primitivo, ma efficace, di tutela della natura e delle risorse che permetteva a ogni uomo di partecipare alle spese della comunità pagando il proprio tributo svolgendo direttamente un lavoro per le opere pubbliche o consegnando al cacicco una parte di quanto prodotto con il proprio lavoro.
Quando Pedro de Añasco e Juan de Ampudia, iniziarono la costruzione della nuova città pretesero da tutti i cacicchi della regione un tributo come riconoscimento del Re di Spagna, che il Papa di Roma aveva riconosciuto essere il sovrano di quelle nuove terre selvagge.
Molti cacicchi riconobbero la loro impotenza e si assoggettarono alla volontà degli stranieri. Tra questi c’era anche il figlio del cacicco Piguanza, capo della tribù degli Yalconi, che vivevano nella stessa valle dove viveva la Cacicca Gaitana. Questo giovane fu preso a benvolere dagli spagnoli e reclutato come guida indigena, benché da lui si pretendeva solo conoscere quali cacicchi erano i più ribelli e si sarebbero opposti alla volontà del Re di Spagna.
Fu così che Añasco, il comandante della sparuta guarnigione spagnola che Belarcazar aveva incaricato di vigilare su quelle tribù, fu informato che Timanco , il giovane cacicco dei Timanaes, si rifiutava di accettare ordini e di pagare il tributo a un Re che non conosceva e non voleva onorare. La decisione di Añasco fu immediata e considerò il comportamento ribelle del giovane Cacicco come un atto di lesa maestà e fattosi guidare fino alla sua capanna, durante la notte lo rapì.
Solo il mattino dopo il suo popolo si accorse del tradimento, dell’attacco e del rapimento.
La "vedova Gaitana" presa dalla disperazione non ebbe nemmeno il tempo di capire o di chiamare la sua gente sulla piazza per gridare il dolore e la rabbia per l'oltraggio fatto a suo figlio e a tutto il popolo dei Timanaes perché mentre ancora la gente nemmeno sapeva del rapimento gli stranieri vollero dare un esempio della loro potenza per convincere qualsiasi ribelle a rispettare i loro ordini.
I soldati spagnoli fecero arrivare un carro che portava il cacicco Timanco, legato mani e piedi, al centro della piazza e cominciarono a frustarlo e, noncuranti delle suppliche del popolo e dei gemiti della madre, poi cominciano a torturarlo, sperando così di intimidire il popolo e renderlo più arrendevole ma vedendo che la folla continuava a pressarli da vicino e a gridare che il cacicco doveva essere liberato, Añasco decise che il popolo aveva bisogno di un esempio più forte:
Timanco fu bruciato vivo.
Tutto il popolo e gli stessi soldati spagnoli restarono sconcertati dalla brutalità del gesto e dalla assurdità di una dimostrazione di violenza tanto spropositata da scatenare una maggiore aggressività fa parte del popolo che si rese conto che i veri motivi che animavano gli stranieri era la loro avidità e la volontà di assoggettare popoli sconosciuti solo per rubare oro, metalli e tesori per se stessi e per un re straniero che le aveva inviati non come Dei ma come animali predatori.
Solo il giovane Yalcone, il figlio di Pigoanza , che ormai gli spagnoli chiamavano Don Rodrigo e gli mostravano rispetto, non comprese che gli spagnoli stavano per essere sconfitti e impaurito dalla loro reazione sanguinaria cercò di renderli più mansueti raccontando che sulle montagne esisteva il loro tesoro che, dopo la morte di Timanco, solo la Vedova Gaitana sapeva dove si trovava.
Ma la Vedova Gaitana, la Valorosa, come diceva il suo nome, al contrario di quanto credevano gli spagnoli, anziché essere prostrata dal suo dolore ne trasse un enorme forza che sfogò in un incontrollabile desiderio di vendetta che le permise di far trovare un accordo tra tutte le tribù delle valli, compresa quella degli Yalcones di Pigoanza. E formò un esercito di più di seimila uomini.
Añasco non poteva prevedere tempi tanto rapidi per una reazione dei selvaggi e sentendosi ormai sicuro per la dimostrazione di forza data con l'esecuzione di Timanco sulla piazza, entrò spavaldamente nel villaggio seguito dai suoi uomini, e dalla sua guida indigena.
Appena i soldati entrarono nel villaggio, tutto il popolo si strinse minaccioso attorno a loro. Añasco, vedendo Pigoanza in mezzo agli altri cacicchi, comprese immediatamente il rischio che stava correndo e prima di essere assalito facendosi scudo con il corpo della sua guida indigena, il figlio di Pigoanza, minacciò di ucciderlo. (Il giovane indio da traditore era diventato tradito). L'innato spirito paterno del cacicco lo fece esitare nell’ordinare l’assalto e fu allora che la Gaitana dovette prendere in mano la situazione per convincere Pigoanza che a nulla sarebbe servito lasciare liberi gli spagnoli anche se promettevano di voler liberare suo figlio, perché avevano già dimostrato la loro ferocie a slealtà per cui l’avrebbero comunque ucciso. Così cominciò la vendetta e gli spagnoli, poco più di una decina, furono assaliti, sopraffatti e fatti prigionieri. Sette ne furono uccisi, mentre altri due scapparono e Añasco, l'assassino di Timanco, fu catturato.
Questa è la parte più drammatica della storia perché narra della rappresaglia di una madre ferita che può sfogare tutta la sua disperazione e la sua rabbia sul corpo del carnefice di suo figlio fino a strappargli gli occhi per averglielo tolto. Poi, presa da una follia omicida, mentre il sangue sgorgava ancora dalle orbite degli occhi, fece un buco nella gola per passare una corda attraverso la mandibola e legarla per trascinare Añasco, sconfitto, in tutta la sua miseria e mostrarlo morto a tutto il villaggio. Ma il suo dolore si confuse con l’odio, con l'ira, la rabbia, la voglia di vendetta e la vista del sangue oscurò la mente della donna che continuò ad infierire ancora su quel cadavere e gli fece tagliare i piedi, i genitali e la testa mentre tutto il popolo faceva festa e le donne cantavano e ballavano, sperando che tanto sangue e tanto orrore, servissero a far dimenticare, ad asciugare le lacrime e soffrire meno.
Poi finalmente la Gaitana si riebbe dalla sua furia e si rese conto che la vendetta per la perdita del figlio non poteva essere terminata e non sarebbe servita ad altro che a soffocare la sua rabbia, il suo popolo, comunque, avrebbe visto arrivare altri stranieri ed avrebbe dovuto soffrire ancora la loro pressione. Dimostrò di essere una valorosa guerriera e organizzò una lega di tutte le tribù per riunire un esercito ancora più grande del primo, armato oltre che con archi, frecce e lance anche con quelle armi che avevano preso agli spagnoli rimasti uccisi sulla piazza della battaglia. Per la prima volta tutte le tribù che erano sempre state rivali e in guerra tra di loro, si trovarono unite nella lotta per riprendersi le loro terre : così Piranas, Nasas, Yalcones, Guanaca, Pijao, Avirama, Guacaes, Yaporonge, Coyaimas e tutti quei popoli che avevano subito soprusi e umiliazioni dagli spagnoli si ritrovarono insieme uniti a combattere per la libertà loro, dei loro figli, delle loro donne.
Solo allora i soldati spagnoli si resero conto di non essere invincibili, ma solo una piccola guarnigione impaurita e circondata dagli indigeni che li costringevano a restare chiusi dentro le loro fortificazioni, per difendersi dagli assalti e dalle imboscate, in cui ogni volta, pur facendo molte vittime tra gli assalitori, perdevano qualcuno dei loro pochi uomini.
Proprio quando il piano di rivincita, preparato dalla Vedova Gaitana, contro gli invasori stava cominciando a funzionare, si rimise in moto la macchina invincibile della delazione, del raggiro, della mistificazione e del tradimento.
Piccoli doni, adulazioni e promesse di riconoscenza con incarichi più importanti furono le armi che bastarono per corrompere gli indigeni più ambiziosi e ingenui.
Fu il capo di una piccola tribù, Matambo, il primo che tradì l’alleanza e andò a raccontare a Juan de Ampudio, il nuovo comandante che aveva preso il posto di Añasco alla guida della guarnigione spagnola di Timanà, i piani di combattimento che stava pensando la sua gente.
Il primo schema che fu svelato al nemico prevedeva che tutti i guerrieri indigeni attaccassero la guarnigione contemporaneamente spingendo gli invasori verso la riva del fiume Yuma per impedire ogni via di uscita e sconfiggerli definitivamente, uccidendoli tutti.
Durante la battaglia che vedeva i seimila guerrieri dell’alleanza combattere contro meno di cento soldati invasori, le donne avrebbero attraversato il Rio Wakakaya (Rio Magdalena) con le loro canoe per portare tutti gli utensili che servivano per celebrare una vittoria che credevano già sicura e che gli Dei non avrebbero negato.
Ma la storia ha insegnato che né gli Dei, né la Giustizia, né la lealtà, né l’onore fanno vincere le guerre. Senza questo nuovo tradimento forse la storia delle tribù indigene delle Ande sarebbe stata diversa, ma cominciò l'attacco gli spagnoli erano tutti lì, pronti ad attenderli con i loro fucili e i loro cannoni: e anche questa volta fu una strage.
Quando la Cacicca Gaitana, incredula, vedeva i suoi valorosi guerrieri colpiti a morte prima ancora di aver sferrato l'attacco finale, pensò che gli spiriti avessero abbandonato lei e tutto il suo popolo, quindi prima di decidere se continuare l’attacco, volle interpellare il suo Mohàn, il suo spirito protettore e chiese di farlo allo sciamano del suo villaggio. Ma il suo spirito la accompagnava ancora, quella guerra era giusta e i suoi uomini non potevano essere sconfitti, con questo segno dall’ al di là riuscì a convincere tutte le tribù a continuare la guerra.
Nessuno poteva credere che uno di loro avesse fatto il doppio gioco e Matambo, prima di ogni attacco, continuò a mandare messaggi al nemico che, inspiegabilmente, riusciva sempre a prevenire le mosse degli assalitori che non avevano scampo ma continuavano sorretti dalla certezza di essere nel giusto e dalla fede nella volontà degli Dei. Solo questa forza li spinse a continuare a combattere e lo fecero fino a quando non videro che uno ad uno anche i loro capi stavano morendo.
A quel punto la loro fede cominciò a vacillare tanto da perdere la sicurezza di poter vincere contro un nemico che continuavano ad attaccare senza forza, senza speranza.
Furono feriti e uccisi e restarono sul campo migliaia di uomini.
Con la distruzione del loro esercito, cominciò la fine dell’autonomia, delle credenze e della cultura degli indigeni. In tutti si ingenerò un senso di impotenza, di inadeguatezza, di estraneità a quella terra che avevano finora amato e difeso, di terrore. Solo pochi dei sopravvissuti si assoggettarono alle regole di un Re che non conoscevano e abbandonarono la fede dei loro antichi Dei. Solo i più deboli o forse i più duttili o i più compiacenti si fecero convincere, anche con la forza, ad adorare una croce che per loro non aveva nessun significato. Gli altri, in verità, erano rimaste solo poche centinaia di famiglie, fuggirono sulle montagne per cercare di ricostruire le loro case e la loro vita, ma la maggior parte morì per le ferite che aveva lasciato la guerra, per la fame o per il vaiolo, che avevano preso dagli spagnoli.
I racconti che da secoli si ripetono tra le montagne delle Ande dicono che la Gaitana sopravvisse a questa guerra ma sentiva su di sé il peso delle tante sconfitte di tanti morti, anche se non si sentiva colpevole per aver portato avanti la sua vendetta e di aver tentato di rendere giustizia al suo popolo.
Così prima che di vedere i pochi malconci superstiti dalle battaglie fuggire per nascondersi sulla montagna, fece decorare la piazza centrale del suo villaggio con tutto l’oro, l’argento e gli smeraldi che poté trovare e invitò tutto il popolo ad una grande festa, dove si consumarono tutte le riserve di Chicha di mais, di coca e di cacao. Fu una festa come quelle che si facevano in onore degli Dei all’ equinozio estivo e tutti mangiarono e si ubriacarono fino a perdere i sensi e dimenticare tutta la tristezza, il dramma vissuto e non pensare al futuro che avevano perso per sempre.
Poi quando la festa fu terminata la Gaitana mostrò a tutti la mappa che portava alla terra dove era stato sepolto il loro tesoro, la Valle delle Tombe Sacre e delle grandi Statue.
Sapeva che la sua vita non aveva più motivo di continuare perché i suoi affetti, i suoi Dei e le sue convinzioni rappresentavano un mondo ormai passato, che nessuno avrebbe più compreso o apprezzato e decise che per lei era giunto il momento di lasciare questo mondo.
Entrò nell'accampamento degli spagnoli e sfidò il comandante Ampudìa, a seguirla se avesse voluto sapere dove si trovava il tesoro dei suoi antenati. Spinto dalla avidità che dalla curiosità Ampudia
Cominciò a seguirla, sperando che lei fosse l’unica persona a conoscere la verità sul posto dove si trovava il tesoro, forse proprio quella città d'oro che tutti cercavano: l’Eldorado.
Insieme ai suoi ultimi pochi guerrieri raggiunse la Valle Sacra e si fermò dove il fiume Guacacallo diventa largo poco più di due metri e poi si getta, con una cascata, nel grande fiume Yuma.
Fu in questo luogo che la Gaitana mise in atto la sua vera vendetta e vinse la sua guerra personale. Con passi esperti la cacicca saltò sulla riva opposta del fiume e mentre lasciava cadere a terra la Mappa del Tesoro, si gettò giù per la cascata, seguita dai suoi fedeli guerrieri.
Ampudia raccolse la mappa e vi trovo scritta una frase in uno spagnolo quasi incomprensibile che diceva: “Ti trovi sopra il tesoro”.
Le parole erano vere ma la rude soldataglia spagnola non poteva né vedere che comprenderne né il significato né l’importanza che avevano quei luoghi sacri. Per Ampudia tesoro significava oro, smeraldi, argento e ritenenne che la Gaitana e i suoi guerrieri fossero fuggiti per difendere il loro tesoro e ordinò ai suoi uomini di seguirlo nelle acque del fiume. Dalla violenza di quelle acque non era mai tornato nessuno, come non vollero tornare la Gaitana ed i suoi soldati che vi cercarono la morte per non dover sopportare i nuovi oppressori e come fece A. che, spinto dalla sua avidità, non aveva capito di essere andato troppo oltre.
Passarono più di quattrocento anni prima che si sentisse parlare di nuovo di un tesoro nascosto sulle montagne dell’Huila e benché l’uomo continui ancora ad intendere per ricchezza lo sfoggio di denaro, di oro e di pietre preziose c’è anche chi riesce a comprendere che la dote vera, la ricchezza di un popolo, sta in tutta in ciò che rappresenta la sua arte, la sua storia, i suoi eroi , la sua fede e le sue tradizioni. Sono questi i valori che permettono ad un popolo di sperare e credere nel futuro.
Per quasi quaranta anni, andò avanti una dura resistenza indigena contro gli spagnoli, che per imporre la loro autorità, costruivano nuove città, che venivano assediate e distrutte dalla ribellione dei popoli sottomessi. Certe volte le città venivano ricostruite in posti differenti e gli indigeni le distruggevano un’altra volta come avvenne per la città di Timaná, che fu fondata la prima volta sulla strada per Popayán, e si chiamò “Guacacallo” e poi, venti anni dopo, fu ricostruita a pochi chilometri di distanza, dove si trova oggi; o come avvenne a Neiva, la capitale dello stato colombiano dell’Huila, che è l’unica città al mondo fondata tre volte, in posti differenti.
Pochi indigeni restarono isolati tra le montagne e molti altri si mischiarono con i conquistadores, i vincitori, quelli che scrissero la storia, raccontando Il senso dell’onore, il valore e le prodezze che tramandarono le loro gesta e l’eroismo, trasformandoli, per le generazioni future, in eroi positivi, benedetti dalla fortuna e inviati dal loro Dio.
Gli altri invece, i vinti persero la loro la loro terra, la loro identità, il rispetto, gli Dei e vennero ricordati solo come eroi negativi, canaglie malvagie che si opposero al progresso per la loro ignorante rozzezza profana e la loro crudeltà.
Ma ormai non stiamo più raccontando la leggenda della Vedova Gaitana o una pagina di storia dei popoli delle Ande, ma parliamo della lotta eterna della forza, della prevaricazione, del successo e del potere che ogni uomo sente combattere dentro la propria anima contro la Giustizia e la Morale.
Forse non fu la Cacicca Gaitana a coprire con cumuli di terra la preziosa eredità di una civiltà molto più vecchia di lei, forse è stata la natura stessa che, dopo secoli di abbandono, ha riconquistato il suo spazio nascondendo alla bramosia di invasori rozzi e ignoranti quel tesoro che non avrebbero né apprezzato, né riconosciuto ma che oggi è stato trasformato nel più grande museo all’aperto del mondo : il “Parco Archeologico di San Agustìn”.
Poco a sud del parco nella cascata dove il fiume Guacacallo si getta nel Rio Magdalena sono molti quelli che, per dare prova del loro coraggio, tentano lo stesso salto che fece la Cacicca Gaitana. Spesso l’abilità e l’ imprudenza sono premiate e il coraggio diventa eroismo ma qualche volta invece la forza della natura continua a vincere e conferma, come avvenne con Ampudia, che l’uomo non riuscirà mai a combattere alla pari contro la potenza della natura. Contro il volere degli Spiriti come credeva la Cacicca Gaitana.
FINE
Tra quelle montagne lontane
Viveva una donna assai potente
Che ogni terra raggiungeva
Con la forza di amici e parenti.
Era vedova ormai ed aveva
Un figlio che già comandava molta gente,
ma non voleva essere vassallo,
così Añasco volle castigarlo
…….
“A tutti i cacicchi e ai signori
si volge e a vendicarsi li provoca
Finché che si procurò i voti
di tutti i popoli vicini e remoti”
Tratto da : "Elegías de Varones Ilustres de Indias"
5. L’ Inframondo
In un mondo in cui il processo di integrazione culturale è tanto esaltato nella forma della globalizzazione si rischia di perdere il contatto con quelli che sono i meccanismi più intimi e più interni della mente umana in base ai quali tutti i popoli che hanno cominciato a sviluppare una propria cultura hanno preso coscienza del senso di appartenenza e di identità sociale e religiosa. Cercare di capire quale era, o quale può essere, il modo di pensare o di agire di popoli remoti nello spazio e nel tempo può permettere di comprendere che esistono anche prospettive differenti da quelle esclusivamente razionali con cui oggi si è abituati a pensare in qualsiasi paese del mondo. Stiamo parlando dell'aspetto mistico dell'esistenza basato cioè su un credo profondo e sulla ritualità di alcuni comportamenti. Proprio il rito, lo stesso che si celebra oggi nelle cerimonie religiose o civili, è l’elemento portante delle culture basate sullo spirito: il rito definisce i modi, gli spazi e i tempi in cui dovranno avvenire certe azioni che segneranno i momenti più importanti della vita di una persona nell’ambito di una comunità.
I riti si celebrano quando termina un periodo della vita, quando finisce l’adolescenza, quando ci si unisce in matrimonio, quando si muore e i festeggiamenti che seguono permettono al popolo di ingraziarsi gli Dei e al Re e ai suoi sacerdoti di ammansire il popolo con regali, cibi e abbondanti libagioni.
L’Inframondo definisce un “passaggio", un processo di cambiamento, una porta aperta verso uno spazio simbolico, inconsueto, da dove inizia un viaggio, un'avventura che si può intravedere interpretando i simboli, le allegorie, le metafore, le sensazioni. Questa zona indefinita può essere vista solo da una mente eletta, che possa vedere anche oltre il mondo reale: un medium, uno sciamano, qualcuno che riesca ad alterare il suo stato di mentale e perdere coscienza fino a uscire dalla realtà terrena e prendere contatto con le forze del bene e del male.
Quelle forze che sono le uniche a poter decidere se si guarirà dalle malattie, se un uomo merita di essere accompagnato verso un altro stato sociale, se l’ anima di una persona che muore resterà sospesa tra il mondo dei vivi e quello dei morti, se raggiungerà serenamente l'aldilà, o se ritornerà tra i vivi, reincarnandosi nello spirito di un nuovo nato.
E’ proprio questa la funzione dello sciamano: aiutare a traghettare l'uomo verso un mondo ultraterreno. Dovrà procurarsi uno stato di catalessi che lo porti tra il sogno e la veglia, tra la vita e la morte, si asterrà per lunghi periodi dal mangiare, dal dormire, dal bere e ballerà fino ad entrare in una sorta di delirio procurato spesso aiutato anche dall’assunzione di allucinogeni. Solo dopo aver raggiunto questo stato di estasi e sentire che l’anima si allontana dal corpo, lo sciamano entrerà in contatto con gli spiriti e crederà di essere in contatto con gli Spiriti per mezzo di percezioni extracorporali da cui trarrà i suoi presagi.
Non si può escludere che esistano grandi risorse intuitive, nascoste nella mente umana e trasmesse insieme al patrimonio genetico, ma gli uomini occidentali, almeno negli ultimi millenni, non sanno quale sia la porta di accesso al loro mondo inconscio.
Potrebbe essere questo il motivo per cui, indipendentemente dalla nostra fede, nei momenti difficili della vita cerchiamo le risposte alle nostre domande non dalla ragione ma più spesso dall'anima è proprio questa ricerca fatta "inconsciamente" potrebbe spiegare le basi su cui hanno poggiato le culture più antiche.
Quando degli eventi naturali o umani impedivano un contatto con l’Inframondo, i primi popoli non potevano sapere se le loro scelte di pace o di guerra sarebbero state approvate dagli Dei e, senza una profezia, perdevano la loro sicurezza, il loro orientamento perché decidere prima di conoscere la volontà degli Dei non avrebbe permesso di godere della loro protezione.
Questi concetti sono comuni a tutte le culture arcaiche e particolarmente in quelle che hanno sviluppato una cultura scritta è stata documentata l'esistenza diparole che esprimono uno stato del subconscio che non appartiene più alla vita terrena ma non appartiene ancora al mondo dei morti.
Il momento in cui l'uomo, la comunità si mette in contatto con l’ ultraterreno.
Con la
leggenda di Bochica, la
mitologia Chibca racconta l'origine del "Salto del
Tequendama", una modesta cascata di acqua che squarciava una rocca che oggi si trova nella zona sud di Bogotà - ormai quasi in mezzo al traffico cittadino - e che, fino a pochi anni fa raccoglieva le acque del fiume Tequendama, che oggi finisce in un acquitrino, prima di raggiungere il "Salto".
Bochica era un uomo anziano e come tutti gli Dei importanti era rappresentato con tutti i capelli bianchi e con una barba che gli arrivava fino alla cintura, camminava pestando pesantemente la terra, senza scarpe ed era vestito solo con una tunica che lasciava scoperte le braccia e il collo e arrivava fino al polpaccio.
Scese dalle lontane pianure fino ai villaggi di Bosa e di Soacha dove la gente volle chiamarlo Chimizagua , che vuol dire messaggero di Chiminigagua , che era il Dio supremo, quello che aveva dato inizio al mondo, alla luce e a tutte le creature.
Chimizagua parlava alla gente e predicava il rispetto delle leggi e spiegava l'armonia e il modo in cui si doveva vivere, spiegò agli uomini come si doveva filare il cotone e come si dovevano tessere le coperte. Poi, quando le Persone - i Muisca - mostrarono di aver compreso le regole, lasciò Bosa e continuò il suo cammino per predicare negli altri villaggi, come Fontibon e Serrezuela - tutti pueblitos che ancora oggi si trovano nei dintorni di Bogotà - poi quando anche lì le Persone avevano compreso i suoi insegnamenti andò a Cota e poi si spinse fin sulle rive del Rio Sogamoso e, svolto il suo lavoro tra i Muisca, scomparve.
Così dicendo gettò in terra la verga d'oro che aveva in mano. Si trovava sulla rocca del Tequendama e la verga d'oro spacco la roccia e aprì un varco e si creò una cascata nella quale cominciarono a buttarsi tutte le acque che ricoprivano i campi. La verga d'oro con cui Bochica aveva aperto il varco nella roccia però non era abbastanza grande e il passaggio aperto servì a malapena a far defluire le acque della stagione delle piogge, così una parte delle acque continuò a ristagnare e la terrà restò acquitrinosa, ma comunque tornò ad essere terra buona per essere coltivata, per piantare i semi e per dare frutti. Quindi se i Muisca – le Persone - avessero ripreso a rispettare gli insegnamenti di Bochica la terra sarebbe rimasta fertile e gli Dei l'avrebbero protetta dalle inondazioni, facendo apparire l’arcobaleno in cielo.
L’antica tradizione Muisca dello Zipa, ricoperto con polvere d’oro che offriva tesori alla dea del sacro lago di Guatavita fu l’origine della leggenda di El Dorado. Questo modello in oro è esposto nel Museo de Oro di Bogotá, Colombia.
La leggenda del Cacicco di Guatavita non è una invenzione della prodigiosa immaginazione degli indigeni ma un vero pezzo di storia le cui origini risalgono al lontano passato delle popolazioni Muisca che crearono una cerimonia celebrata da un Cacicco d’oro. Il racconto di questa festa figura bene tra le storie più belle della cultura universale.
Il Cacicco di Guatavita comandava le terre che si trovano poco a Nord della città che oggi si chiama Bogotà e ogni primavera celebrava un rito per implorare la benevolenza degli Dei della Laguna, per riaffermare la sua discendenza divina ed il suo diritto a governare ed amministrare la giustizia.
Nei periodi che precedevano la cerimonia il Cacicco e tutti i cortigiani dovevano rispettare un rituale che prevedeva sacrifici, digiuno, astinenza sessuale e penitenza per purificare il corpo e l’anima prima presentarsi agli Dei per chiedere il perdono dei peccati , per essere consolati e per ricevere buoni auspici per il futuro.
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Laguna de Guatavita |
Anche il popolo viveva una frenesia altrettanto grande e si preparava con penitenze e propositi di pentimento, purificando il corpo con giorni di digiuno e privazione di tutto ciò che poteva dare piacere o divertimento. Solo con il corpo e lo spirito purificato si sarebbe stati ammessi ai festeggiamenti che seguivano il rito nella Laguna.
C’era chi preparava festoni dipinti e pennacchi, fatti con piume di uccelli multicolori, per decorare le maschere da indossare durante la festa, c’era chi accordava gli strumenti a fiato, i tamburelli e i sonagli di conchiglia o di osso per allietare la festa. C’era poi chi coceva il cibo o portava la frutta, ma la maggior attenzione era dedicata alla preparazione della “chicha”, il liquore fermentato fatto con spirito di mais, bevuto da sempre da tutti i popoli delle Ande, dopo aver masticato foglie fresche di coca, miste alla polvere bianca di calce che ogni contadino custodiva gelosamente nel suo “poporo”.
Con l’avvicinarsi del giorno dell’evento l’ansia della gente aumentava ed i preparativi diventavano sempre più febbrili per il timore che non fosse tutto pronto per l’arrivo dei rappresentanti dei popoli vicini che venivano per partecipare alla cerimonia della laguna.
Uno dei "Poporo" più eleganti custodito nel Museo de Oro di Bogotà |
La cerimonia del rito della Laguna cominciava di notte, poco prima dell’alba. Quando già da ore tutto era già pronto, aveva inizio il corteo che si snodava dal Palazzo del Cacicco alla Laguna divina. La processione era preceduta dal suono di flauti, pifferi e tamburelli e da una folla di persone che indossavano abiti colorati e scintillanti, poi seguivano i musici che sfilavano accompagnati da canti e preghiere.
Arrivava infine il corteo scortato dalla guardia reale formata da guerrieri, i “güechas”, che sfilavano con lunghe lance, frecce ed alti copricapo ornati con le piume degli uccelli più esotici. La guardia era disposta ai lati e dietro la portantina reale, e la portava maestosamente a spalla, accompagnandola fino alla laguna, sulle cui rive si trovavano già in attesa tutte le genti del luogo e delle zone vicine.
Per evitare che il piede del Cacicco toccasse il suolo durante il tragitto dalla portantina alla maestosa zattera ancorata alla riva della Laguna, il terreno veniva ricoperto con stoffe pregiate e i petali di fiori di bosco multicolori e profumati.
La grande zattera era costruita con dei giunchi intrecciati e con bordi alti e decorati riccamente. Quattro bracieri erano stati messi ai lati dell’imbarcazione e bruciavano resine e profumi insieme al “moque”, una specie di incenso prodotto negli altipiani con piante e resine del posto.
Per primi salivano a bordo i sudditi di rango più elevato ed erano riconoscibili per il ricco abbigliamento, le piume di uccelli rari, le collane ed i copricapo decorati da lamine d’oro. Questi prendevano posto ai lati dell’imbarcazione, lasciando il posto al centro libero per il sovrano, che dopo essere salito con passo solenne sulla rampa della zattera, raggiungeva il trono che si trovava in mezzo a ceste piene di gioielli e pietre preziose.
Allora anche dalle rive si accendevano bracieri profumati e tutto il popolo doveva volgere le spalle alla laguna o abbassare gli occhi per non offendere con il suo sguardo la divina maestà del cacicco. La solennità del momento era annunciata con canti, invocazioni e preghiere che risuonavano per tutta la laguna.
Il Cacicco lasciava cadere il prezioso manto rosso che copriva il suo corpo e restava del tutto nudo, ma cosparso con uno strato di resina resa scintillante da una patina compatta di polvere d’oro.
Così statuario, eretto e superbo, il Cacicco nel buio della notte, rifletteva la luce della luna e aveva l'aspetto solenne e austero di un Dio pagano.
Poi la Balsa reale, spinta da lunghi remi, raggiungeva lentamente il centro della Laguna, dove aveva inizio la parte più maestosa del rito. Tutto il popolo restava in silenzio ed il nobile Cacicco avvolto nelle volute del fumo di resine profumate, volgeva il suo sguardo verso Oriente ed attendendo il sorgere del sole, entrava in uno stato di estasi mistica.
Quando le prime sfumature del rosso e del viola si insinuavano tra le nuvole dell’intenso azzurro del cielo della notte e finalmente il primo raggio di sole si rifletteva sul corpo dorato del cacicco, un delicato mormorio di preghiera accompagnava il fluttuare delle onde della Laguna sacra insieme alle delicate ed gioiose note di flauti e tamburelli che risvegliavano il Cacicco dal “trance” in cui era rimasto immerso.
Allora il Cacicco intonava un inno agli Dei, con voce percettibile solo ai dignitari a bordo, per invocare la buona sorte per i suoi amati sudditi, poi alzava le braccia verso tutto il popolo che cingeva la Laguna e lanciava un grido di incontenibile felicità.
La sua voce rimbombava in tutti gli angoli della valle e scatenava le grida della folla, già eccitata per l’imminente inizio del rito sacro.
Il Cacicco, sempre immobile al centro della balsa, continuava a recitare le più profonde ed emozionate orazioni previste dalla tradizione e prendeva a piene mani i più splendidi smeraldi e li lanciava nelle profonde acque della Laguna sacra. Poi ancora sussurrando formule antiche, con gesti alteri, continuava la cerimonia spargendo nelle acque della laguna gli oggetti d’oro più preziosi ed i gioielli più rari creati dagli abili artisti orafi muisca.
Le preghiere intense del cacicco e dei cortigiani accompagnavano il lancio delle preziose offerte nelle acque, e gradualmente le voci della folla alzavano il tono ed i canti e le preghiere si levavano alte nell’aria profumata della valle. Dopo la cerimonia delle offerte alla Dea della Laguna il Cacicco si preparava per l’immersione e si gettava dalla zattera nuotando nelle acque scure della laguna. Le alghe a contatto con il corpo scioglievano la resina e la polvere d’oro scendeva verso il fondo del lago come ultimo omaggio alla Dea. Poi il Cacicco risaliva sulla balsa e subito i cortigiani lo avvolgevano in morbide coperte e asciugavano il corpo ormai purificato dalla sacra abluzione.
Mentre la zattera si preparava, maestosamente, a far ritorno sulla terra ferma il Cacicco era rivestito con paramenti e mantello propri della sua regalità.
Al suono dei “fotutos”, degli zufoli, dei flauti e dei tamburelli l’imbarcazione tornava a riva ed i sudditi voltavano nuovamente le spalle alla sacra laguna o si inchinavano reverenti perché ora, come sempre i loro sguardi avrebbero potuto ferire od offendere la sublime maestà del sovrano che, sceso a terra, calcava nuovamente lento e solenne i tappeti di fiori che lo portavano verso la portantina reale che i gagliardi guerrieri immediatamente sollevavano per ricondurre l’augusta figura alla sua reggia.
Terminava così il rito sacro ed il seguito del re si cambiava per partecipare alla festa che iniziava con le celebrazioni del palazzo reale, dove erano allestite tavole imbandite con un assortimento esagerato di cibi inviati per l’occasione da tutti i territori del caciccato. Per il cacicco e la sua corte, al suono di ocarine, flauti e tamburi si esibivano le più belle danzatrici scelte per provocare, con movenze sensuali, gli sguardi e le voglie dei cortigiani durante il banchetto, che era sempre abbondantemente accompagnato da generose bevute di “chicha”. In breve tutti i commensali si abbandonavano agli eccessi più esagerati e la festa arrivava al suo culmine quando tutti si abbandonavano in orge collettive e violente, storditi dal fumo nell’ubriachezza più brutale.
Anche il popolo iniziava i festeggiamenti anche se senza l’opulenza e gli eccessi del Palazzo: nei giorni che seguivano la purificazione e la preghiera nella laguna tutto era allegria, gioia e tutti si sentivano legittimati a godersi la festa. Tutti si riversavano nelle piazze e nelle strade dove tutti insieme, poveri e ricchi, sfilavano con il volto coperto da maschere di ogni tipo, gridando e cantando al suono, spesso stonato, di flauti, ocarine e tamburelli suonati da musicisti già ubriachi. Anche tra il popolo, come alla corte, l’alle- gria dei festeggiamenti raggiungeva il suo apice negli eccessi di cibo, consumato insieme spesso in strada e nelle straordinarie bevute di “chicha” che facevano scoppiare colossali e bestiali ubriacature di massa che causavano violenze fisiche e sessuali fino a quando tutti cadevano incoscienti ed addormentati ma liberi.
Domani ognuno sarebbe tornato al suo lavoro per riprendere la solita vita di stenti e soprusi, come ogni altro giorno dell’anno.
Il nome “El Dorado” si diffuse al tempo della conquista, quando gli spagnoli cercavano come potersi appropriare dei tesori degli indigeni più che conquistare il potere sul loro territorio, benché assoggettare gli indigeni fosse l’unico modo per raggiungere i loro tesori. La storia ebbe inizio con Sebastiàn de Belalcàzar, che fondò Quito, i n Perù, nel 1534. Belalcàzar aveva preso come schiavi alcuni indigeni per procurarsi notizie sui luoghi in cui si trovavano le città più ricche d’oro, d’argento e pietre preziose.
Così quando un indio raccontò la storia di un Cacicco, ricoperto d’oro che gettava offerte preziose per gli Dei di in una Laguna tra le montagne, Belalcàzar vide la possibilità della sua vita, come aveva avuto Pizarro in Perù per conquistare potere, gloria e ricchezza.
E proprio per evitare che il suo diretto superiore Pizarro , avuta questa notizia, volesse intraprendere lui stesso di questa avventura, Belalcàzar ordinò che la storia restasse segreta. Per evitarne la diffusione inventò un codice segreto : ogni volta che i suoi soldati dovevano indicare il luogo, il popolo o il percorso da seguire in questa avventura, parlavano di un mitico e sconosciuto “El Dorado”.
Così nacque il nome immaginario della leggenda, anche se quando Belalcàzar arrivò sugli altopiani, questi erano ormai già stati conquistati da Jimenez de Quezada. Era stata fondata Bogotà, sterminati gli indigeni ed ucciso lo Zipa di Guatavita, l’ultimo cacicco che aveva celebrato il rito del “El Dorado”. Ma anche se qui nessuno trovò mai grandi ricchezze, questa leggenda già si diffondeva non solo tra i conquistatori in America ma anche in Europa.
Quindi solo una casualità diede il nome “ El Dorado” alla mèta di pionieri, avventurieri ed eserciti di conquista e rappresentò impropriamente, oltre a ricchezza, tesori favolosi e fortuna facile, anche lo spirito che animò i pionieri alla scoperta di nuove terre. causando massacri di interi popoli, alla scomparsa di antiche culture.
Le tradizioni degli indigeni pagani furono considerate residui di culture inferiori e quindi il massacro di interi popoli permise l’introduzione della civiltà dei vincitori. I riti, le lingue e gli dei dovevano essere dimenticati, ogni forma artistica distrutta perché differente e, quindi, incomprensibile e gli oggetti d’oro furono fusi per essere portati più facilmente al re di Spagna.
La memoria delle grandi culture precolombiane oggi può essere studiata solo grazie a qualche reliquia rubata o recuperata dai guaqueros dalle tombe dei loro antenati e dal ricordo orale dei superstiti “Muisca”, talvolta direttamente in spagnolo riducendo così la possibilità di esprimere a pieno concetti di una cultura remota e lontana dalla realtà di oggi.
La storia del Cacicco di Guatavita raccoglie le prime regole religiose e sociali del popolo Muisca ed il significato originale di ogni atto della cerimonia esprime il profondo senso religioso, in tutta la sua formalità ed il simbolismo ostentati dallo sfarzo del rito ripetuto ogni anno dai sovrani (“Mnya”in lingua chibca) per oltre un millennio.
Infatti ogni comportamento descritto nella leggenda trasmette la profonda religiosità del popolo muisca, che conduceva una vita dura, in mezzo a montagne ed acquitrini, spesso in guerra con le tribù vicine in un territorio tormentato da terremoti ed alluvioni, quindi ovviamente incline ad affidarsi alla benevolenza degli Dei pur dovendosi assoggettare alle stesse rigide regole formali per la purificazione del corpo e dell’anima osservate dai sacerdoti (“Jeques” ) prima che intercedessero per loro con gli Dei.
Ma questa tradizione riconosce anche la sacralità e la divinità del sistema politico rappresentato dal Cacicco, che infatti non doveva mai essere visto in faccia dal popolo, pena l’ostracismo sociale per il colpevole, che additato al pubblico disprezzo, poteva perfino essere condannato a morte per lesa maestà, insieme alla sua famiglia.
La leggenda termina con festeggiamenti sfrenati offerti al popolo dal cacicco e qui troviamo la conferma e la spiegazione sociale dell’evento dei baccanali che servono, come sempre è servito, a tutti i governi autoritari ad elargire un momento di protagonismo al popolo che debilitato nel fisico e ubriaco nell’anima potrà meglio continuare ad essere un buon suddito.
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pubblicata su Tepee Nr. 38/ 2010 ·
Oggi
nella regione che una volta era abitata dal popolo Chibca, si trova la
Savana di Bogotà che sorge sulla cordigliera orientale delle Ande a
circa tremila metri di altitudine, ma dobbiamo immaginare questo posto
come era migliaia di anni fa quando c’era una fauna, una flora ed un
clima molto differente da oggi ma essenzialmente quando non esisteva
l’uomo. Allora non c’era né savana né valli coltivate ma solo grandi
pianure acquitrinose chiuse dai monti che le circondavano. C’erano anche
Laghi più grandi come la Laguna di Tinjaca o la Laguna di Hunza oggi
scomparse, e ce n’erano tante altre lagune più piccole, nascoste nella
boscaglia. Tra quei piccoli laghi si trovava anche la Laguna di
Iguaque. Qui sarebbe stata ambientata una delle più belle leggende
Chibca: La Leggenda di Bachué, madre del genere umano.
Il popolo
dei Chibca viveva nelle valli dell’Altopiano, sulle rive dei tanti
stagni che sorgevano in mezzo ai boschi che separavano i laghi più
grandi. I Chibca praticavano una agricoltura rudimentale e quindi
coltivavano per lo più tuberi, mais e qualche altra pianta conosciuta
per caso. Qualche volta catturando un piccolo animale selvaggio potevano
completare il pasto con un po’ di carne.
L’uomo conosceva le
forze avverse della natura e conviveva già con esse, soffrendo per i
suoi rigori ma in queste terre si viveva anche con l’angoscia causata
delle continue scosse telluriche. I terremoti sono avvenimenti malvagi
che possono marcare fortemente anche le caratteristiche fisiche e
psichiche degli uomini che vi sono soggetti. Per questo una volta le
frontiere geografiche segnavano non solo l’arrivo in un altro paese ma
mostravano anche uomini dalle profonde differenze di comportamento,
ereditate dall’ambiente naturale e sociale in cui erano cresciuti. I
terremoti erano implacabili e contribuivano a fissavano i limiti del
territorio, limitando lo sviluppo e obbligando l’uomo ad adattarsi alle
regole della natura che lo circondava, come dovevano fare tutti gli
altri animali.
La vita dipendeva dagli eventi della natura e
quindi si dava ai fenomeni come pioggia, sole, luna, stelle, estate,
inverno, giorno, notte e terremoti l’unica spiegazione che uomini chiusi
nelle loro piccole realtà potessero trovare : Questi avvenimenti si
attribuivano alla volontà di esseri soprannaturali che li inviavano
sulla terra per premiare o castigare le azioni degli uomini, della
tribù.
La religione iniziò di qui, cercando di trovare una
spiegazione agli eventi che coinvolgevano gli uomini senza che essi
potessero capire, né controllare, né comandare.
Negli altipiani
viveva gente semplice, di indole buona e sognatrice. Ogni giorno svolta
la loro attività principale, che era trovare qualcosa da mangiare,
passavano il resto del tempo senza far niente. Così qualcuno cominciò a
fare domande su quei fatti che nessuno sapeva spiegare e l’uomo
divenne un narratore di storie. Storie che, ripetute di bocca in bocca,
di generazione in generazione, divennero parte delle credenze religiose
e dei miti dei Chibca.

Così cominciò la storia di Bachué, progenitrice del genere umano.
Fino a quel momento sulla terrà non esisteva l’uomo.
Si
racconta che in una tiepida mattina di primavera, i primi raggi del
sole si affacciarono con tutta la bellezza dei loro colori sulla piccola
e brumosa laguna di Iguaque, incastonata nel verde dei boschi.
Sotto
il dolce calore del Sole, la nebbia presto si dissolse, scoprendo le
limpide acque in cui si rifletteva l’azzurro intenso del cielo. Il
silenzio sempre uguale della valle, improvvisamente, fu turbato dal volo
di uno stormo di uccelli dal piumaggio multicolore che cinguettando,
attraversavano le serene acque della piccola laguna, e ritornavano
indietro e ancora avanti, come se aspettassero qualcosa. Poi dal
centro della laguna si levò un’ aria più fresca e poi una brezza calda
scosse le piante ed i fiori esotici che circondavano le acque immobili
di Iguaque. Poi le acque presero un moto lento ma regolare, come il
movimento di danza e tutto sembrava in festa intorno alla laguna. Ed
allegro.
Allora le acque calme e cristalline della
piccola laguna cominciarono a prendere un ritmo più regolare e le
oscillazioni delle onde raggiungevano la sponda del lago con un leggero
mormorio, che sembrava un cantico di lode. come per annunciare una
felice apparizione.
Improvvisamente le onde si fecero
più alte e le acque, non più tranquille, squarciarono la terra aprendosi
e lontana dal fondo segreto della laguna apparve l’immagine di una
bellissima donna che emergeva dalle acque vestita con merletti
trasparenti e adorna di candide ghirlande di fiori. Aveva la bellezza
incomparabile di una Dea, il suo volto era senza uguali per bellezza ,
il suo corpo agile e con forme morbide e feconde. Dalla sua figura,
ineguagliabile anche tra quelle degli dei, emanava il profumo della
santa missione che doveva svolgere sulla terra.
Era nata Bachuè.
Ma
la buona dea non era emersa da sola dalla laguna di Iguaque. Con la sua
mano destra tirava a sé un bimbetto di tre anni. Questo bambino, forte
nel fisico e di aspetto nobile era il figlio prediletto dagli Dei, che
lo inviavano sulla terra insieme a Bachué per compiere il Sacro destino
dell’Universo. Bachué accompagnata dal bambino che teneva stretto per
la mano uscì dalle acque del lago, che ormai erano tornate calme, e
raggiunse la riva della laguna.
Per la prima volta il piede umano toccava la terra.
Bachué
ed il bambino si allontanarono dalla riva del lago che aveva dato loro i
natali e si addentrarono fino ai confini più remoti dei territori.
Bachué costruì un rifugio solido e sicuro per sé e per il suo
accompagnatore e passarono così molti anni, durante i quali la buona
Bachué accudì il bambino che crebbe e divenne prima un adolescente e poi
un vigoroso giovane.
Quando il giovane fu un uomo capace
di esprimere tutta la sua virilità, Bachué celebrò con lui il proprio
matrimonio. Cominciava così la storia del genere umano.
Dopo
pochi mesi la feconda Bachué diede alla luce il suo primo frutto, o
meglio i suoi primi frutti perché nacquero ben quattro rampolli. In
seguito Bachué generò molti altri figli ed ogni volta partoriva quattro,
cinque o sei bambini, tanta era la sua prolificità. Passarono tanti
anni da non potersi più contare e Bachué ed il suo sposo percorrevano
montagne e praterie popolandole con abbondante progenie. Quando i figli
crescevano Bachuè era sempre pronta ad istruirli sull’arte di tessere,
di costruire ed insegnava a riconoscere le piante buone, a curarsi ed al
rispetto di sani principi morali. Così trascorse tanto altro tempo e
Bachué ed il suo sposo iniziarono a sentire il peso degli anni che si
ripercuoteva sui loro corpi indebolendoli, anche se dentro di sé
sentivano il loro spirito sempre pieno di calore ed affetto per
l’umanità. Compresero allora che la loro missione sulla terra era
compiuta e si apprestarono al ritorno al mondo dell’aldilà.
Bachué,
ed il suo fedele compagno fecero ritorno alla Laguna di Iguaque ed in
presenza di una moltitudine di genti, in realtà tutti figli e figli dei
loro figli, si lanciarono tra le tranquille acque della stessa laguna
che molto tempo prima erano state il ventre fertile che aveva generati.
Appena toccate le acque della laguna, Bachué ed il suo
compagno si trasformarono in serpenti ed immediatamente sparirono nelle
acque cristalline per perdersi poi ai confini del fondo sconosciuto
della laguna. Così in presenza di tutta la loro discendenza, che li
vedeva partire con tristezza e malinconia, scomparvero Bachué ed il suo
sposo, tornati nel seno materno delle acque della Laguna di Iguaque che
ora serviva da sepolcro mentre prima era stata culla.
Talvolta
Bachué, la sacra progenitrice dell’umanità, nella sua forma di
serpente, simbolo di saggezza, torna a mostrarsi sulle serene acque
della laguna di Iguaque, per ricordare a tutto il genere umano che deve
sempre rispettare i precetti da lei insegnati durante la missione degli
Dei sulla terra. Quando Bachué e del suo sposo furono tornati alla
Laguna a Iguaque, il luogo divenne sacro per le generazioni future che
vi tornarono ad offrire doni, recitare preghiere, chiedere grazia o
perdono e per sognare un futuro migliore.
Questa è la
storia, la leggenda, il mito di Bachué e della sacra laguna di Iguaque,
culla e sepolcro dei progenitori della razza umana.
La
leggenda della nascita dell’umanità è molto affascinante sia per la
semplicità della sua primitiva costruzione sia per la devozione che
risvegliano queste storie tanto antiche.
Protagoniste di questa
leggenda sono le icone più importanti dell’epoca : la donna, perché
madre feconda che genera la vita , e l’acqua che, oltre ad essere molto
presente nell’ambiente lacustre, tiene in vita uomini e piante.
E
sono protagoniste anche quelle inquietudini e angosce dell’uomo che
contribuiscono nel formare il suo carattere e nel determinare le sue
reazioni, particolarmente se si abitano zone dalle condizioni di vita
estreme. Per questo motivo possiamo trovare molte analogie tra miti e
leggende narrate da civiltà distanti tra loro sia culturalmente che
geograficamente.
Nell’epoca in cui nacque questa leggenda tra i
popoli chibca vigeva un sistema matriarcale, descritto dal profondo
rispetto per la donna, la madre ed i defunti. La storia si sviluppa
interamente attorno alla figura della bellissima Donna che sorge dalle
acque e che assume subito il ruolo di madre, di educatrice dei suoi
discendenti e di guida del suo popolo. La figura maschile invece ha
solo un ruolo passivo, accompagna Bachué durante tutta la leggenda ma
solo come strumento di fecondazione e non ha nemmeno un nome.
L’acqua
è un elemento essenziale della vita per i popoli chibca, ma anche per
le religioni hindu, dove l’uomo si immerge nel fiume per purificarsi, e
per gli antichi greci che fecero nascere tanti miti e leggende dalle
acque del Mare Egeo.
Importante anche la scelta di ambientare la
leggenda sulla nascita della razza umana nella piccola e modesta Laguna
di Iguaque e non nelle più maestose ed imponenti Lagune di Hunza o
Tinjaca, che sorgevano nella stessa regione. Anche i cristiani
preferirono far nascere il Salvatore della razza umana in un umile
stalla piuttosto che in splendide dimore o ricchi palazzi. Forse i
chibca, come i cristiani, avvertirono la grandezza dell’umiltà e anche
loro preferirono far nascere la progenitrice del genere umano in un
luogo umile e nascosto nella fitta boscaglia, scossa dai terremoti.
Leggende
e miti non si trovano nei musei come resti archeologici, oreficeria o
altro ma le storie tramandate a voce ci fanno riconoscere le stesse
sensazioni e perplessità che l’uomo ha provato in tempi remoti ma che
continua a provare ogni giorno.
4. La leggenda della Cacicca Gaitana
pubblicata da Bosque Primario il giorno mercoledì 21 marzo 2012 alle ore 19.14 ·
La storia della Gaitana, la Cacicca-vedova, risale al tempo in cui gli spagnoli conquistarono le terre dell’Huila, nella parte meridionale delle Ande colombiane poco a sud del luogo dove oggi si trova la diga di Betania e dove i campesiños stanno manifestando contro la costruzione della nuova diga di “El Quimbo” che dovrebbe inondare le loro terre, costringendoli all’emigrazione, ma dove il Rio Magdalena si sta opponendo all’opera dell’uomo tanto che, dopo essere stato deviato artificialmente, è tornato a scorrere nel suo letto originario.
Il mito di questa Cacicca guerriera è ispirato a un fatto di cronaca vera che racconta atti di coraggio, crudeltà, meschinità, dolore, odio, vendetta, orgoglio e amor materno. Ma il vero messaggio che ci trasmette questa storia è la dimostrazione che, per quanto siano assurde ed efferate le angherie che si possano vivere, non c’è modo per evitare che certe tragedie, certi atroci delitti vengano commessi di nuovo, perché l’uomo in ogni tempo ha imparato poco dalla memoria dei padri anche se li onora e ne conserva il ricordo.
Questa non è la storia di una madre che ha perso un figlio, ma la storia di un popolo che è stato risucchiato da un vortice di violenza, che lo ha travolto lasciandolo senza nessuna possibilità di scegliere. Stretto in una stretta strada ostile, attaccato su tutti i fronti si è trovato obbligato a dover lottare, senza il tempo di pensare, e reagire con l’odio alla violenza agli inganni, alle bugie e ai tradimenti di un nemico sleale, che combatte per vincere, senza regole, senza rispetto né dignità.
È, purtroppo, una storia estremamente attuale che potremmo leggere sui giornali di oggi: si racconta delle astuzie della politica, del tradimento e dell’oppressione dei forti contro i deboli e dei furbi contro gli onesti. Si racconta di come si conquista il potere e di come nasce una ribellione contro i soprusi, che inizialmente vengono minimizzati e sopportati. Si racconta di come il malaffare si insinua nel tessuto della società, come un virus, fino ad avvelenarla e modificarne l’equilibrio sociale, togliendo sempre un po’ di più a tutti per poter distribuire tutto il guadagno a pochi miseri, sempre più ricchi, manipolatori.
Ma a ben osservare, l'esperienza dei padri, la loro memoria, è stata tutta assorbita da quella che si può definire " l’arte per fare una guerra" che si è molto raffinata tanto che oggi fa parte del programma insegnato nelle scuole militare. Oltre alle armi di offesa fisica contro il nemico e contro la popolazione, si insegna ad usare la “disinformazione” per creare un'opinione pubblica più favorevole e predisposta verso un certo comportamento piuttosto che un altro. Certi delitti vengono provocati, sfruttati e strumentalizzati per presentarli all’opinione pubblica come atti di criminalità comune, per distrarre l’attenzione da ben più gravi infamie che, in silenzio, potranno passare inosservate. Con più eleganza e nobilitate da un parvenza di formazione professionale si insegna oggi a scuola come provocare le stesse circostanze che si verificarono ai tempi della Cacicca Gaitana.
- La storia
Nelle classi di storia delle scuole colombiane si racconta di una donna che gli spagnoli chiamavano “La Gaitana” forse per assonanza con il suo vero nome che nella lingua quechua era “Wateqpa, la Valorosa. Era una delle tante Signore, le donne cacicco, che governavano nella regione intorno al Rio Guacacallo, un affluente del grande fiume Yuma, come era chiamato allora il Rio Magdalena.
Pensiamo a una bambina che giocava tra quelle montagne dove oggi è stato creato il “Parco Archeologico di S. Agustin” , in mezzo alla solennità di una antica civiltà, capace di erigere opere megalitiche, templi, graffiti e sculture che, per stile, magnificenza e dimensioni sono oggi tra le più importanti opere della scultura precolombiana. Queste pietre scolpite non erano un patrimonio che apparteneva alla sua tribù ma era una eredità ben più antica che dovevano proteggere e custodire come ricordo dei loro padri, scomparsi improvvisamente tante generazioni prima.
Questa bambina correva lungo l’Alto Rio Magdalena, dove le acque erano poco profonde e il fiume si restringeva tanto che si attraversava con un salto. Tutto intorno c’erano tante statue megalitiche che rendevano omaggio agli Dei e agli Antenati: La “Fuentes de Lavapatas” era una Valle Sacra, un luogo di pace dove si andava per pregare gli spiriti e il cuore era più leggero tra le antiche pietre scurite dal tempo e scolpite a forma di animali, di guerrieri e di simboli divini, nella quiete delle acque del fiume che rendevano più solenne il silenzio.
Quando la Gaitana era bambina si viveva ancora in pace, anche se si diceva che dove le acque del Rio Yuma si perdevano nella grande acqua, erano arrivati degli Dei molto alti, con la pelle bianca e peli sul corpo, che marciavano svelti, sporchi e maleodoranti accompagnati da bestie forti e grosse mentre si facevano precedere e seguire da piccoli animali che ringhiavano e azzannavano chiunque si avvicinasse.
Dovevano essere uomini potenti come gli Dei, perché avevano ucciso Re e cacicchi e nessuno, fino a quel momento, aveva mai osato uccidere un Re. Un Re era un essere divino, era molto più simile agli Dei che agli uomini e solo l'idea che un uomo del popolo o della corte osasse pensare di ucciderlo era inspiegabile, non solo per la venerazione dovuta al Re ma perché ci si sarebbe potuti inimicare gli Dei che avrebbero potuto abbandonare gli uomini e lasciarli senza la loro protezione e senza rivelare i loro auspici. A nulla sarebbero servite le implorazioni del popolo o le invocazioni degli sciamani: gli Dei avrebbero taciuto e l’Inframondo avrebbe tenuto chiusa la sua porta. (* Vedi NOTA 2)
In quella parte di Cordigliera molte tribù erano governate dalle donne e una delle Signore-cacicco divenne proprio la Gaitana, la valorosa. La nostra storia comincia nel 1538 quando Timanco, figlio della Cacicca, era già diventato Signore dei Timanaes mentre sua madre, che gli aveva trasmesso parte del potere, era diventata per tutti “La Vedova Gaitana”.
In quel periodo le preghiere e le offerte agli dei erano diventate sempre più frequenti e ricche, perché si sentiva dire nelle valli che potenti tribù come i Tuluas, i Xamundies, gli Yotocos e i Bugas, che vivevano più a valle, nella terra dove tramonta il sole, erano state sterminate e che la Valle de laboyos era stata distrutta e ogni sua ricchezza depredata dagli quegli stessi soldati che poi avevano costruito la nuova città di Popayan.
Erano stati gli uomini di Sebastián de Belalcázar che marciavano accompagnati da una guida india di Quito, Quisquiz, che doveva portarli nelle terre del favoloso El Dorado, che si trovava più a Nord nelle savane degli altipiani, dove viveva il popolo Muisca e dove oggi sorge Bogotà.
Per questo motivo Belalcázar aveva dovuto attraversare le terre degli Yalcones e dei Timanaes e per questo stesso motivo non si fermò anche se decise di incaricare i suoi luogotenenti Pedro de Añasco e Juan de Ampudia di presidiare questa zona e fondare un’altra nuova città, Timaná.
- Il Tesoro
I Timanaes erano un popolo povero e semplice e credendo che gli stranieri volessero trafugare i loro beni preziosi la Gaitana, cercò di mettere in salvo quello che per lei, per il suo popolo e per la sua cultura era il vero tesoro. Pertanto mandò i suoi uomini nella Valle Sacra a coprire con terra e frasche tutte le statue megalitiche degli antenati, perché “tutta la Valle Sacra” era il loro unico tesoro, perché profanando quelle statue e quella pace il suo popolo non avrebbe più parlato con l’al di la: In questa valle ogni anno, durante l’equinozio estivo, si celebrava un rito sacro per invocare la benevolenza e la protezione degli Dei contro tutte le avversità della vita e della natura.
Del resto sarebbe stato molto difficile per la Gaitana riuscire a comprendere il vero spirito che spingeva gli stranieri ad uccidere e rischiare di essere uccisi pur di impossessarsi di beni di nessuna importanza come “ oro o pietre”. Per tutti i popoli pre-colombiani il concetto di proprietà e di arricchimento non coincideva affatto con quello degli europei. L’ idea del possesso per questa gente era molto più ampia.
Tutti potevano liberamente raccogliere i frutti della terra, della pesca e della caccia per sfamare se stessi e la propria famiglia e per pagare il tributo per la comunità. Tutti potevano avere quanto serviva per vivere e la ricchezza non si esprimeva accumulando cibo per il futuro o altri beni naturali, né dava prestigio l’appropriarsi di beni superflui.
Si tratta di un concetto primitivo, ma efficace, di tutela della natura e delle risorse che permetteva a ogni uomo di partecipare alle spese della comunità pagando il proprio tributo svolgendo direttamente un lavoro per le opere pubbliche o consegnando al cacicco una parte di quanto prodotto con il proprio lavoro.
- Il Rapimento del Cacicco
Quando Pedro de Añasco e Juan de Ampudia, iniziarono la costruzione della nuova città pretesero da tutti i cacicchi della regione un tributo come riconoscimento del Re di Spagna, che il Papa di Roma aveva riconosciuto essere il sovrano di quelle nuove terre selvagge.
Molti cacicchi riconobbero la loro impotenza e si assoggettarono alla volontà degli stranieri. Tra questi c’era anche il figlio del cacicco Piguanza, capo della tribù degli Yalconi, che vivevano nella stessa valle dove viveva la Cacicca Gaitana. Questo giovane fu preso a benvolere dagli spagnoli e reclutato come guida indigena, benché da lui si pretendeva solo conoscere quali cacicchi erano i più ribelli e si sarebbero opposti alla volontà del Re di Spagna.
Fu così che Añasco, il comandante della sparuta guarnigione spagnola che Belarcazar aveva incaricato di vigilare su quelle tribù, fu informato che Timanco , il giovane cacicco dei Timanaes, si rifiutava di accettare ordini e di pagare il tributo a un Re che non conosceva e non voleva onorare. La decisione di Añasco fu immediata e considerò il comportamento ribelle del giovane Cacicco come un atto di lesa maestà e fattosi guidare fino alla sua capanna, durante la notte lo rapì.
Solo il mattino dopo il suo popolo si accorse del tradimento, dell’attacco e del rapimento.
La "vedova Gaitana" presa dalla disperazione non ebbe nemmeno il tempo di capire o di chiamare la sua gente sulla piazza per gridare il dolore e la rabbia per l'oltraggio fatto a suo figlio e a tutto il popolo dei Timanaes perché mentre ancora la gente nemmeno sapeva del rapimento gli stranieri vollero dare un esempio della loro potenza per convincere qualsiasi ribelle a rispettare i loro ordini.
- L’Esecuzione di Timanco
I soldati spagnoli fecero arrivare un carro che portava il cacicco Timanco, legato mani e piedi, al centro della piazza e cominciarono a frustarlo e, noncuranti delle suppliche del popolo e dei gemiti della madre, poi cominciano a torturarlo, sperando così di intimidire il popolo e renderlo più arrendevole ma vedendo che la folla continuava a pressarli da vicino e a gridare che il cacicco doveva essere liberato, Añasco decise che il popolo aveva bisogno di un esempio più forte:
Timanco fu bruciato vivo.
Tutto il popolo e gli stessi soldati spagnoli restarono sconcertati dalla brutalità del gesto e dalla assurdità di una dimostrazione di violenza tanto spropositata da scatenare una maggiore aggressività fa parte del popolo che si rese conto che i veri motivi che animavano gli stranieri era la loro avidità e la volontà di assoggettare popoli sconosciuti solo per rubare oro, metalli e tesori per se stessi e per un re straniero che le aveva inviati non come Dei ma come animali predatori.
Solo il giovane Yalcone, il figlio di Pigoanza , che ormai gli spagnoli chiamavano Don Rodrigo e gli mostravano rispetto, non comprese che gli spagnoli stavano per essere sconfitti e impaurito dalla loro reazione sanguinaria cercò di renderli più mansueti raccontando che sulle montagne esisteva il loro tesoro che, dopo la morte di Timanco, solo la Vedova Gaitana sapeva dove si trovava.
Ma la Vedova Gaitana, la Valorosa, come diceva il suo nome, al contrario di quanto credevano gli spagnoli, anziché essere prostrata dal suo dolore ne trasse un enorme forza che sfogò in un incontrollabile desiderio di vendetta che le permise di far trovare un accordo tra tutte le tribù delle valli, compresa quella degli Yalcones di Pigoanza. E formò un esercito di più di seimila uomini.
- La Vendetta
Añasco non poteva prevedere tempi tanto rapidi per una reazione dei selvaggi e sentendosi ormai sicuro per la dimostrazione di forza data con l'esecuzione di Timanco sulla piazza, entrò spavaldamente nel villaggio seguito dai suoi uomini, e dalla sua guida indigena.
Appena i soldati entrarono nel villaggio, tutto il popolo si strinse minaccioso attorno a loro. Añasco, vedendo Pigoanza in mezzo agli altri cacicchi, comprese immediatamente il rischio che stava correndo e prima di essere assalito facendosi scudo con il corpo della sua guida indigena, il figlio di Pigoanza, minacciò di ucciderlo. (Il giovane indio da traditore era diventato tradito). L'innato spirito paterno del cacicco lo fece esitare nell’ordinare l’assalto e fu allora che la Gaitana dovette prendere in mano la situazione per convincere Pigoanza che a nulla sarebbe servito lasciare liberi gli spagnoli anche se promettevano di voler liberare suo figlio, perché avevano già dimostrato la loro ferocie a slealtà per cui l’avrebbero comunque ucciso. Così cominciò la vendetta e gli spagnoli, poco più di una decina, furono assaliti, sopraffatti e fatti prigionieri. Sette ne furono uccisi, mentre altri due scapparono e Añasco, l'assassino di Timanco, fu catturato.
Questa è la parte più drammatica della storia perché narra della rappresaglia di una madre ferita che può sfogare tutta la sua disperazione e la sua rabbia sul corpo del carnefice di suo figlio fino a strappargli gli occhi per averglielo tolto. Poi, presa da una follia omicida, mentre il sangue sgorgava ancora dalle orbite degli occhi, fece un buco nella gola per passare una corda attraverso la mandibola e legarla per trascinare Añasco, sconfitto, in tutta la sua miseria e mostrarlo morto a tutto il villaggio. Ma il suo dolore si confuse con l’odio, con l'ira, la rabbia, la voglia di vendetta e la vista del sangue oscurò la mente della donna che continuò ad infierire ancora su quel cadavere e gli fece tagliare i piedi, i genitali e la testa mentre tutto il popolo faceva festa e le donne cantavano e ballavano, sperando che tanto sangue e tanto orrore, servissero a far dimenticare, ad asciugare le lacrime e soffrire meno.
- Una lega delle tribù
Poi finalmente la Gaitana si riebbe dalla sua furia e si rese conto che la vendetta per la perdita del figlio non poteva essere terminata e non sarebbe servita ad altro che a soffocare la sua rabbia, il suo popolo, comunque, avrebbe visto arrivare altri stranieri ed avrebbe dovuto soffrire ancora la loro pressione. Dimostrò di essere una valorosa guerriera e organizzò una lega di tutte le tribù per riunire un esercito ancora più grande del primo, armato oltre che con archi, frecce e lance anche con quelle armi che avevano preso agli spagnoli rimasti uccisi sulla piazza della battaglia. Per la prima volta tutte le tribù che erano sempre state rivali e in guerra tra di loro, si trovarono unite nella lotta per riprendersi le loro terre : così Piranas, Nasas, Yalcones, Guanaca, Pijao, Avirama, Guacaes, Yaporonge, Coyaimas e tutti quei popoli che avevano subito soprusi e umiliazioni dagli spagnoli si ritrovarono insieme uniti a combattere per la libertà loro, dei loro figli, delle loro donne.
Solo allora i soldati spagnoli si resero conto di non essere invincibili, ma solo una piccola guarnigione impaurita e circondata dagli indigeni che li costringevano a restare chiusi dentro le loro fortificazioni, per difendersi dagli assalti e dalle imboscate, in cui ogni volta, pur facendo molte vittime tra gli assalitori, perdevano qualcuno dei loro pochi uomini.
Proprio quando il piano di rivincita, preparato dalla Vedova Gaitana, contro gli invasori stava cominciando a funzionare, si rimise in moto la macchina invincibile della delazione, del raggiro, della mistificazione e del tradimento.
- L’ultimo tradimento
Piccoli doni, adulazioni e promesse di riconoscenza con incarichi più importanti furono le armi che bastarono per corrompere gli indigeni più ambiziosi e ingenui.
Fu il capo di una piccola tribù, Matambo, il primo che tradì l’alleanza e andò a raccontare a Juan de Ampudio, il nuovo comandante che aveva preso il posto di Añasco alla guida della guarnigione spagnola di Timanà, i piani di combattimento che stava pensando la sua gente.
Il primo schema che fu svelato al nemico prevedeva che tutti i guerrieri indigeni attaccassero la guarnigione contemporaneamente spingendo gli invasori verso la riva del fiume Yuma per impedire ogni via di uscita e sconfiggerli definitivamente, uccidendoli tutti.
Durante la battaglia che vedeva i seimila guerrieri dell’alleanza combattere contro meno di cento soldati invasori, le donne avrebbero attraversato il Rio Wakakaya (Rio Magdalena) con le loro canoe per portare tutti gli utensili che servivano per celebrare una vittoria che credevano già sicura e che gli Dei non avrebbero negato.
Ma la storia ha insegnato che né gli Dei, né la Giustizia, né la lealtà, né l’onore fanno vincere le guerre. Senza questo nuovo tradimento forse la storia delle tribù indigene delle Ande sarebbe stata diversa, ma cominciò l'attacco gli spagnoli erano tutti lì, pronti ad attenderli con i loro fucili e i loro cannoni: e anche questa volta fu una strage.
Quando la Cacicca Gaitana, incredula, vedeva i suoi valorosi guerrieri colpiti a morte prima ancora di aver sferrato l'attacco finale, pensò che gli spiriti avessero abbandonato lei e tutto il suo popolo, quindi prima di decidere se continuare l’attacco, volle interpellare il suo Mohàn, il suo spirito protettore e chiese di farlo allo sciamano del suo villaggio. Ma il suo spirito la accompagnava ancora, quella guerra era giusta e i suoi uomini non potevano essere sconfitti, con questo segno dall’ al di là riuscì a convincere tutte le tribù a continuare la guerra.
Nessuno poteva credere che uno di loro avesse fatto il doppio gioco e Matambo, prima di ogni attacco, continuò a mandare messaggi al nemico che, inspiegabilmente, riusciva sempre a prevenire le mosse degli assalitori che non avevano scampo ma continuavano sorretti dalla certezza di essere nel giusto e dalla fede nella volontà degli Dei. Solo questa forza li spinse a continuare a combattere e lo fecero fino a quando non videro che uno ad uno anche i loro capi stavano morendo.
A quel punto la loro fede cominciò a vacillare tanto da perdere la sicurezza di poter vincere contro un nemico che continuavano ad attaccare senza forza, senza speranza.
Furono feriti e uccisi e restarono sul campo migliaia di uomini.
Con la distruzione del loro esercito, cominciò la fine dell’autonomia, delle credenze e della cultura degli indigeni. In tutti si ingenerò un senso di impotenza, di inadeguatezza, di estraneità a quella terra che avevano finora amato e difeso, di terrore. Solo pochi dei sopravvissuti si assoggettarono alle regole di un Re che non conoscevano e abbandonarono la fede dei loro antichi Dei. Solo i più deboli o forse i più duttili o i più compiacenti si fecero convincere, anche con la forza, ad adorare una croce che per loro non aveva nessun significato. Gli altri, in verità, erano rimaste solo poche centinaia di famiglie, fuggirono sulle montagne per cercare di ricostruire le loro case e la loro vita, ma la maggior parte morì per le ferite che aveva lasciato la guerra, per la fame o per il vaiolo, che avevano preso dagli spagnoli.
- La storia è leggenda
I racconti che da secoli si ripetono tra le montagne delle Ande dicono che la Gaitana sopravvisse a questa guerra ma sentiva su di sé il peso delle tante sconfitte di tanti morti, anche se non si sentiva colpevole per aver portato avanti la sua vendetta e di aver tentato di rendere giustizia al suo popolo.
Così prima che di vedere i pochi malconci superstiti dalle battaglie fuggire per nascondersi sulla montagna, fece decorare la piazza centrale del suo villaggio con tutto l’oro, l’argento e gli smeraldi che poté trovare e invitò tutto il popolo ad una grande festa, dove si consumarono tutte le riserve di Chicha di mais, di coca e di cacao. Fu una festa come quelle che si facevano in onore degli Dei all’ equinozio estivo e tutti mangiarono e si ubriacarono fino a perdere i sensi e dimenticare tutta la tristezza, il dramma vissuto e non pensare al futuro che avevano perso per sempre.
Poi quando la festa fu terminata la Gaitana mostrò a tutti la mappa che portava alla terra dove era stato sepolto il loro tesoro, la Valle delle Tombe Sacre e delle grandi Statue.
Sapeva che la sua vita non aveva più motivo di continuare perché i suoi affetti, i suoi Dei e le sue convinzioni rappresentavano un mondo ormai passato, che nessuno avrebbe più compreso o apprezzato e decise che per lei era giunto il momento di lasciare questo mondo.
Entrò nell'accampamento degli spagnoli e sfidò il comandante Ampudìa, a seguirla se avesse voluto sapere dove si trovava il tesoro dei suoi antenati. Spinto dalla avidità che dalla curiosità Ampudia
Cominciò a seguirla, sperando che lei fosse l’unica persona a conoscere la verità sul posto dove si trovava il tesoro, forse proprio quella città d'oro che tutti cercavano: l’Eldorado.
Insieme ai suoi ultimi pochi guerrieri raggiunse la Valle Sacra e si fermò dove il fiume Guacacallo diventa largo poco più di due metri e poi si getta, con una cascata, nel grande fiume Yuma.
Fu in questo luogo che la Gaitana mise in atto la sua vera vendetta e vinse la sua guerra personale. Con passi esperti la cacicca saltò sulla riva opposta del fiume e mentre lasciava cadere a terra la Mappa del Tesoro, si gettò giù per la cascata, seguita dai suoi fedeli guerrieri.
Ampudia raccolse la mappa e vi trovo scritta una frase in uno spagnolo quasi incomprensibile che diceva: “Ti trovi sopra il tesoro”.
Le parole erano vere ma la rude soldataglia spagnola non poteva né vedere che comprenderne né il significato né l’importanza che avevano quei luoghi sacri. Per Ampudia tesoro significava oro, smeraldi, argento e ritenenne che la Gaitana e i suoi guerrieri fossero fuggiti per difendere il loro tesoro e ordinò ai suoi uomini di seguirlo nelle acque del fiume. Dalla violenza di quelle acque non era mai tornato nessuno, come non vollero tornare la Gaitana ed i suoi soldati che vi cercarono la morte per non dover sopportare i nuovi oppressori e come fece A. che, spinto dalla sua avidità, non aveva capito di essere andato troppo oltre.
Passarono più di quattrocento anni prima che si sentisse parlare di nuovo di un tesoro nascosto sulle montagne dell’Huila e benché l’uomo continui ancora ad intendere per ricchezza lo sfoggio di denaro, di oro e di pietre preziose c’è anche chi riesce a comprendere che la dote vera, la ricchezza di un popolo, sta in tutta in ciò che rappresenta la sua arte, la sua storia, i suoi eroi , la sua fede e le sue tradizioni. Sono questi i valori che permettono ad un popolo di sperare e credere nel futuro.
- Epilogo
Per quasi quaranta anni, andò avanti una dura resistenza indigena contro gli spagnoli, che per imporre la loro autorità, costruivano nuove città, che venivano assediate e distrutte dalla ribellione dei popoli sottomessi. Certe volte le città venivano ricostruite in posti differenti e gli indigeni le distruggevano un’altra volta come avvenne per la città di Timaná, che fu fondata la prima volta sulla strada per Popayán, e si chiamò “Guacacallo” e poi, venti anni dopo, fu ricostruita a pochi chilometri di distanza, dove si trova oggi; o come avvenne a Neiva, la capitale dello stato colombiano dell’Huila, che è l’unica città al mondo fondata tre volte, in posti differenti.
Pochi indigeni restarono isolati tra le montagne e molti altri si mischiarono con i conquistadores, i vincitori, quelli che scrissero la storia, raccontando Il senso dell’onore, il valore e le prodezze che tramandarono le loro gesta e l’eroismo, trasformandoli, per le generazioni future, in eroi positivi, benedetti dalla fortuna e inviati dal loro Dio.
Gli altri invece, i vinti persero la loro la loro terra, la loro identità, il rispetto, gli Dei e vennero ricordati solo come eroi negativi, canaglie malvagie che si opposero al progresso per la loro ignorante rozzezza profana e la loro crudeltà.
Ma ormai non stiamo più raccontando la leggenda della Vedova Gaitana o una pagina di storia dei popoli delle Ande, ma parliamo della lotta eterna della forza, della prevaricazione, del successo e del potere che ogni uomo sente combattere dentro la propria anima contro la Giustizia e la Morale.
- San Agustìn
Forse non fu la Cacicca Gaitana a coprire con cumuli di terra la preziosa eredità di una civiltà molto più vecchia di lei, forse è stata la natura stessa che, dopo secoli di abbandono, ha riconquistato il suo spazio nascondendo alla bramosia di invasori rozzi e ignoranti quel tesoro che non avrebbero né apprezzato, né riconosciuto ma che oggi è stato trasformato nel più grande museo all’aperto del mondo : il “Parco Archeologico di San Agustìn”.
Poco a sud del parco nella cascata dove il fiume Guacacallo si getta nel Rio Magdalena sono molti quelli che, per dare prova del loro coraggio, tentano lo stesso salto che fece la Cacicca Gaitana. Spesso l’abilità e l’ imprudenza sono premiate e il coraggio diventa eroismo ma qualche volta invece la forza della natura continua a vincere e conferma, come avvenne con Ampudia, che l’uomo non riuscirà mai a combattere alla pari contro la potenza della natura. Contro il volere degli Spiriti come credeva la Cacicca Gaitana.
FINE
NOTA 1 : “La Gaitana”
Tra quelle montagne lontane
Viveva una donna assai potente
Che ogni terra raggiungeva
Con la forza di amici e parenti.
Era vedova ormai ed aveva
Un figlio che già comandava molta gente,
ma non voleva essere vassallo,
così Añasco volle castigarlo
…….
“A tutti i cacicchi e ai signori
si volge e a vendicarsi li provoca
Finché che si procurò i voti
di tutti i popoli vicini e remoti”
Tratto da : "Elegías de Varones Ilustres de Indias"
5. L’ Inframondo
In un mondo in cui il processo di integrazione culturale è tanto esaltato nella forma della globalizzazione si rischia di perdere il contatto con quelli che sono i meccanismi più intimi e più interni della mente umana in base ai quali tutti i popoli che hanno cominciato a sviluppare una propria cultura hanno preso coscienza del senso di appartenenza e di identità sociale e religiosa. Cercare di capire quale era, o quale può essere, il modo di pensare o di agire di popoli remoti nello spazio e nel tempo può permettere di comprendere che esistono anche prospettive differenti da quelle esclusivamente razionali con cui oggi si è abituati a pensare in qualsiasi paese del mondo. Stiamo parlando dell'aspetto mistico dell'esistenza basato cioè su un credo profondo e sulla ritualità di alcuni comportamenti. Proprio il rito, lo stesso che si celebra oggi nelle cerimonie religiose o civili, è l’elemento portante delle culture basate sullo spirito: il rito definisce i modi, gli spazi e i tempi in cui dovranno avvenire certe azioni che segneranno i momenti più importanti della vita di una persona nell’ambito di una comunità.
I riti si celebrano quando termina un periodo della vita, quando finisce l’adolescenza, quando ci si unisce in matrimonio, quando si muore e i festeggiamenti che seguono permettono al popolo di ingraziarsi gli Dei e al Re e ai suoi sacerdoti di ammansire il popolo con regali, cibi e abbondanti libagioni.
L’Inframondo definisce un “passaggio", un processo di cambiamento, una porta aperta verso uno spazio simbolico, inconsueto, da dove inizia un viaggio, un'avventura che si può intravedere interpretando i simboli, le allegorie, le metafore, le sensazioni. Questa zona indefinita può essere vista solo da una mente eletta, che possa vedere anche oltre il mondo reale: un medium, uno sciamano, qualcuno che riesca ad alterare il suo stato di mentale e perdere coscienza fino a uscire dalla realtà terrena e prendere contatto con le forze del bene e del male.
Quelle forze che sono le uniche a poter decidere se si guarirà dalle malattie, se un uomo merita di essere accompagnato verso un altro stato sociale, se l’ anima di una persona che muore resterà sospesa tra il mondo dei vivi e quello dei morti, se raggiungerà serenamente l'aldilà, o se ritornerà tra i vivi, reincarnandosi nello spirito di un nuovo nato.
E’ proprio questa la funzione dello sciamano: aiutare a traghettare l'uomo verso un mondo ultraterreno. Dovrà procurarsi uno stato di catalessi che lo porti tra il sogno e la veglia, tra la vita e la morte, si asterrà per lunghi periodi dal mangiare, dal dormire, dal bere e ballerà fino ad entrare in una sorta di delirio procurato spesso aiutato anche dall’assunzione di allucinogeni. Solo dopo aver raggiunto questo stato di estasi e sentire che l’anima si allontana dal corpo, lo sciamano entrerà in contatto con gli spiriti e crederà di essere in contatto con gli Spiriti per mezzo di percezioni extracorporali da cui trarrà i suoi presagi.
Non si può escludere che esistano grandi risorse intuitive, nascoste nella mente umana e trasmesse insieme al patrimonio genetico, ma gli uomini occidentali, almeno negli ultimi millenni, non sanno quale sia la porta di accesso al loro mondo inconscio.
Potrebbe essere questo il motivo per cui, indipendentemente dalla nostra fede, nei momenti difficili della vita cerchiamo le risposte alle nostre domande non dalla ragione ma più spesso dall'anima è proprio questa ricerca fatta "inconsciamente" potrebbe spiegare le basi su cui hanno poggiato le culture più antiche.
Quando degli eventi naturali o umani impedivano un contatto con l’Inframondo, i primi popoli non potevano sapere se le loro scelte di pace o di guerra sarebbero state approvate dagli Dei e, senza una profezia, perdevano la loro sicurezza, il loro orientamento perché decidere prima di conoscere la volontà degli Dei non avrebbe permesso di godere della loro protezione.
Questi concetti sono comuni a tutte le culture arcaiche e particolarmente in quelle che hanno sviluppato una cultura scritta è stata documentata l'esistenza diparole che esprimono uno stato del subconscio che non appartiene più alla vita terrena ma non appartiene ancora al mondo dei morti.
Il momento in cui l'uomo, la comunità si mette in contatto con l’ ultraterreno.
6. La leggenda di Bochica
Bochica era un uomo anziano e come tutti gli Dei importanti era rappresentato con tutti i capelli bianchi e con una barba che gli arrivava fino alla cintura, camminava pestando pesantemente la terra, senza scarpe ed era vestito solo con una tunica che lasciava scoperte le braccia e il collo e arrivava fino al polpaccio.
Scese dalle lontane pianure fino ai villaggi di Bosa e di Soacha dove la gente volle chiamarlo Chimizagua , che vuol dire messaggero di Chiminigagua , che era il Dio supremo, quello che aveva dato inizio al mondo, alla luce e a tutte le creature.
Chimizagua parlava alla gente e predicava il rispetto delle leggi e spiegava l'armonia e il modo in cui si doveva vivere, spiegò agli uomini come si doveva filare il cotone e come si dovevano tessere le coperte. Poi, quando le Persone - i Muisca - mostrarono di aver compreso le regole, lasciò Bosa e continuò il suo cammino per predicare negli altri villaggi, come Fontibon e Serrezuela - tutti pueblitos che ancora oggi si trovano nei dintorni di Bogotà - poi quando anche lì le Persone avevano compreso i suoi insegnamenti andò a Cota e poi si spinse fin sulle rive del Rio Sogamoso e, svolto il suo lavoro tra i Muisca, scomparve.
Per un pò di tempo le Persone continuarono a rispettare le regole dettate dal Dio Bochica e vissero molti anni tranquilli, poi quando il tempo aveva cominciato a cancellare in parte i ricordi, negli stessi
pueblitos arrivò una donna bellissima. Emanava una propria luce, era seducente e capace di ammaliare le Persone con le sue parole e i suoi insegnamenti, fu
chiamata Huitaca - o Chia la dea della Luna.
Questa donna bellissima parlava, parlava e raccontava quanto erano stati pesanti i sacrifici che dovevano essere sopportati per seguire sempre e solo gli insegnamenti che aveva lasciato Bochica. Con il suo fascino e la sua bellezza non fu difficile per lei ammaliare le persone, gli uomini e le donne Muisca e grazie alla sua bellezza
e alle sue parole seducenti, nessuno faticò a seguire i suoi nuovi insegnamenti che invitavano a una vita
di lussuria, di festini, di tempo passato in allegria, di esagerazioni nel mangiare e nel bere, nel lasciarsi andare ai piaceri più terreni, dimenticando di rendere omaggi agli Dei, dell'importanza del rispetto delle regole degli uomini, del lavoro e dei doveri verso la madre terra. Fu
per aver trasformato l'indole buona insita nelle Persone - introdotta da Bochica - e per aver portato falsi insegnamenti che Chimizagagua trasformò Huitaca in una civetta e fece in modo che, da
quel m omweento, Huitaca, Chia – o la Luna, per intenderci - di giorni non potesse più essere vista dagli uomini e da allora, infatti, come succede ancora ai nostri giorni, la Luna sorge solo la notte.
Fu per
l’influenza e il fascino degli insegnamenti portati sulla terra da Huitaca – dalla Luna - che la
vita dei Muisca cominciò a diventare sempre più complicata, più difficile – e le Persone, da quel momento smisero di vivere nel rispetto reciproco e della
dottrina buona, insegnata da Bochica, come se gli dei, con l'arrivo di Huitaca sulla terra avessero
abbandonato le Persone.
I Muisca a quei tempi non onoravano solo il Dio sole, ma veneravano anche altri dei, e proprio uno dei più importanti di questi Dei Chibchacum si sentì profondamente offeso dal comportamento olraggioso delle Persone - dei Muisca – che ormai avevano dimenticato Bochica e seguivano solo gli insegnamenti di Huitaca, e si abbandonavano alla lussuria senza nessuna vergogna, non solo nelle loro case, ma anche nelle strade, in mezzo alla gente.
La rabbia di Chibchacum fu violenta e volle punirli perché espiassero le loro colpe, così fece inondare la terra delle Persone - i Muisca - e deviò il corso dei fiumi Sopo e Tibito spingendoli verso le terre dei Muisca. Le acque dei fiumi si unirono e cominciarono a salire sempre di più e ogni giorno il livello dell'acqua nella valle diventava più alto, fino inondare tutte le terre, fini a raggiungere una altezza che nessuna Persona ricordava di aver mai visto. Le Persone non avevano ormai più niente da mangiare e non potevano nemmeno seminare i campi, perché erano pieni d’acqua: angosciati e ormai incapaci di qualsiasi difesa contro la violenza della natura, non trovarono nessuna altra possibilità che tornare ad affidarsi agli Dei e si raccomandarono a Bochica, ricordando i suoi insegnamenti e supplicandolo di fermare il maleficio inviato da Chibchacum.
Per lungo tempo le Persone supplicarono e fecero ricche offerte al Dio che invocarono con riti sfarzosi, con sacrifici e con digiuni. Ma Bochica continuò a non rispondere.
I Muisca a quei tempi non onoravano solo il Dio sole, ma veneravano anche altri dei, e proprio uno dei più importanti di questi Dei Chibchacum si sentì profondamente offeso dal comportamento olraggioso delle Persone - dei Muisca – che ormai avevano dimenticato Bochica e seguivano solo gli insegnamenti di Huitaca, e si abbandonavano alla lussuria senza nessuna vergogna, non solo nelle loro case, ma anche nelle strade, in mezzo alla gente.
La rabbia di Chibchacum fu violenta e volle punirli perché espiassero le loro colpe, così fece inondare la terra delle Persone - i Muisca - e deviò il corso dei fiumi Sopo e Tibito spingendoli verso le terre dei Muisca. Le acque dei fiumi si unirono e cominciarono a salire sempre di più e ogni giorno il livello dell'acqua nella valle diventava più alto, fino inondare tutte le terre, fini a raggiungere una altezza che nessuna Persona ricordava di aver mai visto. Le Persone non avevano ormai più niente da mangiare e non potevano nemmeno seminare i campi, perché erano pieni d’acqua: angosciati e ormai incapaci di qualsiasi difesa contro la violenza della natura, non trovarono nessuna altra possibilità che tornare ad affidarsi agli Dei e si raccomandarono a Bochica, ricordando i suoi insegnamenti e supplicandolo di fermare il maleficio inviato da Chibchacum.
Per lungo tempo le Persone supplicarono e fecero ricche offerte al Dio che invocarono con riti sfarzosi, con sacrifici e con digiuni. Ma Bochica continuò a non rispondere.
Sembrava che il diluvio non dovesse mai
più terminare e che nessun Dio avesse pietà per le Persone he ormai stavano morendo di stenti e di fame, poi una sera il Dio apparve: Aveva una verga d'oro in mano e - mentre
si accingeva a parlare con la sua voce roboante per farsi sentire sia dai cacicchi che dai vassalli -
alle sue spalle spuntò timidamente il primo raggio di sole, dopo tanto tempo.
Ho
sentito i vostri lamenti e le vostre preghiere mi hanno spinto ad avere pietà per voi e per le vostre sofferenze per la punizione inviata da Chibchacum per i vostri errori e solo lo strazio delle vostre grida mi ha fatto accorrere per risponder alle vostre preghiere e alla generosità delle offerte portate al mio
tempio. Avete pagato per i vostri errori e questo mi basta per occuparmi della vostra provvidenza e mettere rimedio alle vostre
pene. Non prosciugherò i due fiumi che hanno inondato le vostre terre, perché ci sarà un giorno in
cui ne abrete bisogno, ma aprirò una varco per far uscire
le acque e per far ascigare le vostre terre.
Così dicendo gettò in terra la verga d'oro che aveva in mano. Si trovava sulla rocca del Tequendama e la verga d'oro spacco la roccia e aprì un varco e si creò una cascata nella quale cominciarono a buttarsi tutte le acque che ricoprivano i campi. La verga d'oro con cui Bochica aveva aperto il varco nella roccia però non era abbastanza grande e il passaggio aperto servì a malapena a far defluire le acque della stagione delle piogge, così una parte delle acque continuò a ristagnare e la terrà restò acquitrinosa, ma comunque tornò ad essere terra buona per essere coltivata, per piantare i semi e per dare frutti. Quindi se i Muisca – le Persone - avessero ripreso a rispettare gli insegnamenti di Bochica la terra sarebbe rimasta fertile e gli Dei l'avrebbero protetta dalle inondazioni, facendo apparire l’arcobaleno in cielo.
Ora Bochica era tornato in pace con le Persone, ma era ancora in collera con Chibchacum perché la sua punizione era stata crudele come una vendetta e decise di punirlo. Da quel giorno lo
obbligò a proteggere e aprendersi cura della terra e mise tutta la terra, che fino allora era
stata appoggiata su degli enormi alberi di Guiaco ( Guayacanes). sulle spalle del povero Chibchacum . Da allora è Chibchacum che deve occuparsi della terra e del suo equilibrio, ma a volte è troppo stanco e quando deve spostare
il peso da una spalla all'altra, la terra si muove, sobbalza
un poco da una parte all’altra e treme.
Per questo Chibchacum divenne il Dio dei Terremoti, oltre che il Dio Protettore dei commercianti e dei contadini, perchè è lui, con il suo sforzo, che si prende cura di Pachamama, "La Madre Terra" che grazie alla sua protezione, potrà continuare ad esistere in un eterno equilibrio.
Per questo Chibchacum divenne il Dio dei Terremoti, oltre che il Dio Protettore dei commercianti e dei contadini, perchè è lui, con il suo sforzo, che si prende cura di Pachamama, "La Madre Terra" che grazie alla sua protezione, potrà continuare ad esistere in un eterno equilibrio.
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La notte di una giornata molto lunga
Come tutti i racconti che arrivano da lontano nel tempo e tramandati a voce, in una lingua estranea al contesto ambientale in cui si svolge, questa storia è diventata solo unatestimonianza storica e non fa più parte dell'eredità di valori da trasmettere come mezzo educativo ai bambini.
Presto sarà dimenticata, sia perché i nonni ormai non raccontano più favole, sia perché i bambini sono sempre più insofferenti e sono stati abituati a passare il tempo da soli, senza dover cercare un compagno di giochi e accettando per amico uno di quei giocattoli che sanno fare tutto, che non mostrano dubbi e hanno sempre la risposta esatta, senza bisogno che qualcuno debba far girare troppo il cervello. Con quei marchingegni che isolano dal resto del mondo, senza farlo intendere, non è raro arrivare a pensare che non valga più la pena applicarsi nello studio, solo per sapere.
Un modo sempre più intenso di vivere - direi "frettoloso"- sempre più legato a valori reali-concreti-quantificabili e, in ogni caso, replicato in tutti i paesi del mondo, un modo che spinge a imitare - o meglio a desiderare di poter imitare - la vita come raccontano le fiction televisive, le pubblicità ossessive e i media in tutte le loro forme. E' la globalizzazione, un' idea grandiosa, ma stuprata nel suo intimo, quella che potrebbe essere stata la strada del "progresso".
La Notte di una
Giornata molto Lunga
Butaregua e Irapire andavano sempre a giocare nel bosco, i primi alberi arrivavano proprio vicino al villaggio. Se ne andavano a raccogliere i frutti del bosco e le bacche selvatiche, qualche volta riuscivano anche a prendere qualche formica, era un tipo particolare di formiche, quelle con il culo grosso, cotte diventavano croccanti e dolcissime.
Butaregua era un bambino molto tranquillo, era figlio della sorella maggiore del Cacicco e, da grande, secondo le leggi del suo popolo, avrebbe ereditato il posto di suo zio, e sarebbe stato lui, il capo del villaggio. Irapire era sua cugina, aveva quasi la stessa età, era molto sveglia e curiosa, era sempre la prima a correre e a spingere Butaregua ad arrivare in posti nuovi, era sempre lei che si arrampicava più in alto e che voleva metterlo sempre alla prova.
Vivevano a Quyty, un villaggio degli altipiani dove la fantasia dei bambini riusciva facilmente a inventare posti misteriosi, posti da sogno, che spesso diventavano ancora più invitanti perché lontani o, perché proibiti ai bambini. Irapire era sempre piena di idee, era una bambina che amava l'avventura e tutto per lei era una esperienza nuova, eccitante. Ogni volta doveva cercare però di convincere il cugino a seguirla.
Una mattina Irapire si alzò presto perché aveva promesso a sua madre di aiutarla nelle faccende di casa, si sentiva grande, nel fare le stesse cose della madre, ma aveva la sua solita smania che la spingeva a voler uscire di casa, appena possibile, voleva andare a giocare nel bosco con Butaregua.
La madre, che la conosceva come il palmo della sua mano, senza nemmeno guardarla negli occhi, aveva capito tutto e sorridendo le disse: - Non starai mica pensando di andartene anche oggi con tuo cugino, vero?
- Pensavo che sarebbe bello, ora che ha smesso di piovere, andare a cogliere le bacche, in questa stagione sono di tanti colori e poi, dopo che ha piovuto, qualche volta troviamo anche delle belle formiche grasse, mi piacerebbe tanto mangiare le formiche dolci, stasera. Appena ho finito qui. Se stai più tranquilla, mi posso far accompagnare da Butaregua ...... Ho finito tutto, mi mandi, Mamma?
Anche se la madre era molto orgogliosa per la vivacità di sua figlia, si preoccupava che la sua curiosità l’avrebbe spinta a fare qualche imprudenza. Ma la conosceva bene e le piaceva vederla contenta, aveva un bel sorriso. - Andate, andate, ma non fatemi preoccupare e tornate presto.
La bimba aveva già in mente cosa fare, aveva sentito gli anziani del villaggio che parlavano delle grotte dove vivevano i vecchi saggi che avevano lasciato questo mondo. Aveva sentito che si trovavano dall'altra parte del bosco, dove di solito andavano a giocare, e poi dopo il bosco si arrivava ad un luogo sacro, un grande spazio aperto dove c'erano delle pietre enormi, dipinte, che servivano per rendere omaggio agli Dei.
Il luogo sacro si trova in alto e - dicevano che - da lì si potevano vedere le capanne del villaggio, al di là del bosco, e i campi vicini ma poi si doveva camminare ancora per trovare la pietra che nascondeva un buco nella terra, da dove si poteva entrare nella grande grotta. | |
- Butaregua ... Butaregua! Sei pronto, io ti sto già aspettando per andare a giocare, oggi oltre alle more, forse ci sono pure le formiche! - Gridava la bambina uscendo di corsa per andare a cercare il cugino.
- Sì, vengo, però non ho ancora finito,devi aspettare un momento, devo ancora tagliare un po' di legna per il fuoco.
- Guarda, guarda! Ha appena smesso di piovere! Svelto ragazzino! sono sicura che con questo tempo oggi troviamo le formiche, belle grasse e dolci. Ce le mangiamo a casa stasera!.
Gridava Irapire, con l'energia e la felicità che si legge in faccia ai bambini, mentre lo prendeva per mano e cercava di portarselo via.
- Mi dà tanta tristezza pensare alle formichine che vediamo volare nell'aria, perché mio zio mi ha detto che, dopo che fanno l'amore, muoiono. Le formiche muoiono per amore ? Certo, morire d'amore è una bella morte, ma mi sembra troppo triste.
Ma quel pensiero un pò triste, svanì subito e anche lui cominciò a correre dietro alla cugina e, felici, se ne andarono su per la montagna. Irapire correva di più, era più agile e leggera e Butaregua restava sempre indietro e, come sempre, gli toccava rincorrerla.
- Irapire! ... Irapire aspetta, stiamo andando troppo lontano, fermati, non salire più, aspettami!
Ma l’aveva già persa di vista e preoccupato si guardava intorno.Correndo, correndo ormai avevano quasi attraversato tutto il bosco e mancava poco per arrivare dall'altra parte. Butaregua e sua cugina sapevano dei luoghi sacri, e sapevano che a loro non era permesso andarci. Prima dovevano arrivare all'età dell’iniziazione.
Butaregua, intuì che ormai si erano spinti troppo e non avrebbero dovuto andare più avanti, ma non poteva certo lasciare Irapire da sola, non poteva abbandonarla. Esitò un momento e poi sentì il dovere di andare a cercarla e uscì dal bosco.
Il ragazzo restò meravigliato per la bellezza e la serenità di quel posto che, aveva qualcosa di mistico, come se l'aria fosse più leggera, forse per questo gli antenati lo avevano scelto come luogo sacro perché non poteva esistere al mondo un posto più bello e dove la sua gente avrebbe potuto rendere omaggio e onorare, degnamente e in serenità gli Dei.
Un forte bagliore, seguito da un tuono, fecero sussultare il bambino, si era alzato un vento forte e subito fu seguito dalle prime gocce di pioggia, mentre il cielo si oscurava sempre di più e Butaregua, preoccupato, chiamava sua cugina, che ancora non riusciva a trovare.
Sapeva bene che avevano osato troppo e sapeva anche quali erano i rischi che si corrono quando ci si trova in mezzo a una tempesta. Le gocce in pochi minuti divennero una pioggia violenta e il vento cominciò a soffiare così forte che il bambino non riusciva più nemmeno a vedere in che direzione stava andando. La copertina di cotone colorato che gli copriva le spalle si era completamente inzuppata d'acqua e gli si era appiccicata al corpo, tanto che faticava a fare certi movimenti per non cadere sul terreno scivoloso.
Ma quel momento di confusione e di paura passò appena la pioggia divenne meno fitta e riprese a camminare con meno difficoltà, finalmente riuscì di nuovo a vedere intorno a sé. Vide delle ombre gigantesche, attese ancora qualche istante e riconobbe le pietre giganti, quelle con i dipinti sopra, come dicevano gli anziani del villaggio. Dietro doveva esserci l'ingresso alla grotta. Poi quando si avvicinò, vide che Irapire era lì, rannicchiata dietro una roccia, e si stava coprendo gli occhi con le mani.
Ormai era impossibile riportarla a casa, perché la tempesta aveva oscurato il cielo ed era già buio, di notte non si trovata la via del ritorno. Era meglio convincersi che era meno rischioso passare la notte al riparo tra quelle rocce. Non c’era altro da fare che aspettare il sorgere del sole oppure sperare che qualcuno venisse a cercarli, ma nessuno avrebbe pensato che fossero arrivati tanto lontano e nessuno avrebbe creduto che fossero entrati nel luogo proibito.
Il freddo e l'oscurità si facevano sempre più intensi e Butaregua pensò che ci sarebbe voluto un bel fuoco, ma ancora stava pensando a come riuscire ad accenderlo, che Irapire si mise a cercare qualcosa nella mochila - la borsetta - che aveva portato con sé. La bambina si era organizzata e sperando di trovare la grotta, aveva preparato quello che serve per far luce,e vedere quello che c'era dentro. Certo però non aveva immaginato che, nella grotta, avrebbe dovuto passarci la notte e tanto meno aveva immaginato che sarebbe stata punita dagli Dei, con tanta paura, tanto freddo e tanta pioggia dal cielo.
Butaregua cercava di non mostrare la sua preoccupazione e voleva tranquillizzare la cugina che, intanto aveva trovato nella borsetta dei pezzetti di legno e, adesso, con qualche foglia secca che stava in terra, stava strofinado per accendere il fuoco.
Erano rimasti sotto la roccia da dove si poteva scendere nella grotta, ma non osavano andare oltre perché avevano paura. Sapevano che una delle tradizioni del loro popolo, era far mummificati i corpi dei cacicchi morti, e lasciarli vivere la loro vita ultraterrena proprio negli angoli di quella grotta, tutti vestiti con i loro abiti migliori, i gioielli più preziosi e le armi più belle. Al calore del fuoco il sonno e la stanchezza vinsero sui due bambini, che si addormentarono stretti stretti per tenersi caldo, ma appena addormentati un rumore assordante li fece saltare su e, spaventati, si presero subito per mano e corsero via, verso l'interno della grotta. Si trovarono completamente avvolti nel buio, la luce del fuoco era lontana e fioca, ma era rimasta il loro unico punto di riferimento. Avevano paura, paura anche di muovere un solo passo, perché la terra era scivolosa, piena di buche profonde e di pozze piene d' acqua. Bastava un solo passo falso per cadere nel vuoto. Un vuoto che metteva ancora più paura perché tutto quel buoi faceva perdere l'orientamento e bastava solo l'eco dei loro passi e delle loro voci per confondersi e spaventarsi di più.
FINE
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Tratto dal racconto:
LA NOCHE DE UN DIA MUY LARGO di Margarita Reyes
pubblicato dall'Instituto Colombiano de Antropología
:http://www.banrepcultural.org/blaavirtual/ninos/icanno/icanno05.htm
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