Io non temo il momento
Che mette l’affanno,
Quando pigro e lento
L’olezzo dell’inganno
Ridesta e molesta
Una mente intorpidita
E spersa, nell'ora guasta
Che consuma la vita.
Io non temo il momento
Che sfugge ragione,
Legge, logica e tormento,
e si perde nell'emozione
Che rischiara appena
L’ombra che ammanta
Una donna in catena
E una fiamma ormai spenta.
Io ho paura del momento
Che il sole appare nascosto
A occhi che, senza rimpianto,
Vivono nel buio più pesto
e scorgono solo da vicino
l’ardore fioco di un lumicino.
26 Feb. 2019
Quando ci capita di imbatterci in uno scritto che si faceva domande sull'etica e sulla morale di un’epoca lontana e vediamo che i dubbi e le incertezze di allora, sono le stesse di oggi, ci viene più facile prendere coscienza della piccolezza dell’essere umano e dell’importanza dell’ideale che, nella sua immaterialità, è l’unico lascito che sopravvive al breve momento della vita di un uomo, che ama confondere la forza della natura, dello spirito e dei sentimenti con il suo piccolo mondo e con le convenienze del momento. Siamo usi agire e pensare in uno spazio delimitato da norme, leggi e abitudini che rispettiamo perché sappiamo che la nostra società è fondata su principi di giustizia ed equità in cui, a prescindere, crediamo.
Ma le cose cambiano e le stesse parole possono assumere un significato diverso, senza che ce ne accorgiamo, tanto siamo occupati a fare altro, mentre continuiamo a seguire le stesse norme, leggi e abitudini che però stanno perdendo la ragione di essere ancora alla base di una società che, strumentalmente e impercettibilmente, si sta trasformando in qualcosa di diverso. Se però ci liberiamo dagli orpelli e dai legacci che ci tengono fermi e fortemente ancorati al presente e guardiamo oltre, potremmo vedere che i nostri principi, il nostro ideale, resta vivo anche se lo troviamo in una donna in catene, che riconosciamo a fatica nelle tenebre della notte grazie alla flebile fiaccola, che continua a tenere alta, anche se - lontana da occhi distratti - può apparire spenta.
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Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per potere continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; ...... (omissis) quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, .... (omissis) in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, e costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, .... (omissis), puoi credere che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri.Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia e l’altra è la democrazia quando, per ingordigia di libertà e inettitudine dei capi, precipita nella corruzione e nella paralisi.Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa, prima che nel sangue, nel ridicolo.
Atene 370 A.C. - Platone – La Repubblica Cap. VIII
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